Da cinque secoli meta di pellegrini, il santuario di Santa Maria Occorrevole è tutt’oggi un luogo di grande fascino e spiritualità
Una «reliquia» fatta di «bianchi riflessi e balenii di luce, tra la bruna schiera dei lecci secolari e lo sfondo pauroso del burrone, che la protegge dall’alto».
Con queste parole, padre Gioacchino D’Andrea descriveva, diversi anni fa, l’Eremo de «La Solitudine» di Piedimonte Matese. Un luogo di misticismo e spiritualità, di lunghe preghiere e di vita contemplativa, dove la consegna del silenzio è ancora oggi la chiave di volta per i novizi che, sulle alture del Monte Muto, sono chiamati a «verificare», per un anno, la propria vocazione e la propria «chiamata» alla missione voluta da San Francesco.
Un piccolo convento incastonato in una folta vegetazione, costituita da faggi, carpini e querce, ospita i novizi provenienti da tutto il Sud Italia, nei momenti più delicati del ritiro: è la «Verna della Campania», l’Eremo in cui si rifugiarono «frati meravigliosi», molti dei quali sono rimasti scolpiti, con i loro volti e con le loro parole, nell’immaginario della Città di Piedimonte Matese.
I luoghi sacri del Monte Muto, che da cinque secoli sono meta di pellegrini e viandanti alla ricerca del sacro, restano un baluardo di fede, arte e spiritualità. Ma se accanto al convento grande, che custodisce la cappella di Santa Maria Occorrevole, con gli affreschi trecenteschi che riempiono l’abside sovrastato dal Cristo pantocratore, non ci fosse stato l’Eremo della Solitudine, il «conventino dai bianchi riflessi», quel misticismo antico e quella sete di spiritualità che ispirarono San Giovan Giuseppe della Croce sarebbero rimasti una missione incompiuta. Fortunatamente, la costante ricerca di silenzio e di preghiera accompagnò il frate ischitano dalla sua isola dai riflessi marini alle «fitte selve» del Monte Muto. E qui, San Giovan Giuseppe della Croce, quando era «soltanto» un giovane sacerdote, si prodigò incommensurabilmente affinché i conventi di Santa Maria Occorrevole avessero un eremo destinato ad anime «robuste e penitenti, dove i solitari potessero imprimere il sigillo del silenzio alle loro labbra». Quella febbrile ricerca di concentrazione e di preghiera divenne presto realtà e, nel 1679, Papa Innocenzo XI comminò la scomunica per chiunque «di qual si sia stato conditione o sesso avesse osato entrare nel recinto de la Solitudine». Ne seguirono secoli di vita eremitica e di preghiera, di pellegrinaggi e di piena letizia.
Fino ad oggi, con la costante presenza dei frati francescani alcantarini, che nei conventi del Monte Muto hanno la loro casa di noviziato e, fra preghiera, lavoro e letizia, rappresentano la «reliquia» più preziosa per coloro che sono alla ricerca di Dio. E se i severi regolamenti scritti per «anime robuste e penitenti» sono ancora oggi validi per i giovani che si accingono a vivere qui la propria esperienza di noviziato, c’è anche un ampio corredo di emozioni, di condivisione, di tradizioni, di legami che uniscono i frati francescani alla loro gente, all’abitato di Piedimonte e dei comuni vicini, adesso come un tempo, con linguaggi differenti, forme di comunicazione diverse, ma sempre in nome di una «alleanza» non scritta che è fatta di misticismo, di gioia, di umile e fraterna convivialità. Un presidio di povertà silenziosa e discreta, che aiuta a declinare in autenticità e semplicità i mille volti di una crisi economica che si annullano sul viso lieto e ospitale dei novizi. Così, se prima c’erano soltanto i gradoni di una mulattiera a unire la comunità dei frati francescani alla gente della vallata, oggi i novizi, guidati dal maestro padre Antonio Ridolfi, hanno un piccolo furgone per muoversi tutti insieme e per raggiungere le imprevedibili mete cui donare la propria letizia, la propria parola e, al tempo stesso, dalle quali attingere sollecitazioni di preghiera e di riflessione, cui dedicare tempo e silenzio, tra le bianche mura del convento.
Ma chi, ancora oggi, si inerpica lentamente fra i tornanti della mulattiera, scorgendo le linee diroccate delle cappelle in pietra dove veniva recitato il Rosario, ha in serbo non poche emozioni e suggestioni in più. Un piccolo viaggio dalla città al Monte Muto, che consente di ripercorrere i passi di quei «frati meravigliosi» che a dispetto della fatica, della stanchezza, delle difficoltà legate alla geografia dei luoghi, si addentrarono in selve ostili e ne fecero, per tutti, un’oasi di vera pace.
Gianfrancesco D’Andrea, Il Mattino