In un’estate da dimenticare, restano le sue parole forti ai calciatori
Si ricomincia. E oltre alle follie del mercato (il terzino Bale al Real Madrid per 109 milioni di euro è qualcosa che grida vendetta in tempi di crisi), sembra purtroppo si ritorni ai soliti rituali di inciviltà che hanno contraddistinto le ultime stagioni del nostro calcio. Tanto per non dimenticare le chicche dell’estate ricordiamo il carro armato dei tifosi atalantini che sfascia due auto targate Roma e Brescia, l’allenatore Fabio Gallo costretto dai tifosi a rinunciare al suo incarico al Brescia per il suo passato all’Atalanta, il milanista Costant che abbandona il trofeo Tim per i cori beceri e razzisti a lui riservati, cori che hanno avuto un’ulteriore vergognosa fiammata durante la gara di Supercoppa Lazio-Juventus ai danni di alcuni giocatori di colore bianconeri. Ci sarebbe di che scoraggiarsi, se non fosse avvenuto un fatto nuovo e rivoluzionario al tempo stesso: il messaggio che Papa Francesco, in occasione della partita tra le Nazionali italiana e argentina a lui dedicata, ha consegnato ai calciatori, allargando idealmente l’orizzonte a tutti i protagonisti del calcio di oggi. Intanto cominciamo col dire che siamo dinanzi a un pontefice che conosce molto bene la “materia”, essendo appassionato da sempre (e anche tifoso del San Lorenzo di Buenos Aires). Poi colpisce il fatto che abbia tanto insistito su un aspetto, quello spirito dilettantistico figlio del calcio primordiale, magari fatto di stracci, che una volta si giocava nelle strade. In quello che era soltanto e unicamente un gioco, che accomunava ricchi e poveri, istruiti e ignoranti, non c’era spazio per gli interessi economici: si giocava per il gusto di giocare. Oggi invece le tossine del business, della pubblicità esasperata, degli input degli sponsor, dei procuratori e delle tv a pagamento hanno falsato la filosofia di un gioco che davvero fino a pochi decenni fa era uno degli strumenti più genuini per creare messaggi di solidarietà e di fratellanza. Non a caso Gianni Rivera, che in questi giorni ha compiuto 70 anni, a chi gli chiedeva che tipo di giocatore era, per demarcare ancor di più quella linea di confine con il football dei suoi tempi, ha detto: “Io? Non ero un calciatore, ero solo uno che giocava a pallone”. Ma torniamo a Papa Francesco: ai ragazzi delle Nazionali si è rivolto come un padre, senza guardare al campione, ma all’uomo, spiegando come al giorno d’oggi il calciatore sia un esempio mediatico dal grande seguito e per questo motivo li ha spronati ad essere “innanzitutto portatori di umanità, con i suoi pregi e difetti”, ma senza eccedere in individualismo, dando tutto per i compagni, per la squadra. Quindi li ha invitati a seguire una vera e propria missione, dando esempio di “lealtà, rispetto e altruismo, al fine di essere artefici di comprensione e di pace sociale”. Parole forti, non certo di circostanza: ora chi entra in campo non più alibi: il Papa pensa a quando andava allo stadio con la sua famiglia in Argentina, uno scenario oggi reso difficile dall’insopportabile clima di intimidazione che nasce sugli spalti, ma che a volte è incoraggiato da certi atteggiamenti degli addetti ai lavori. Vedremo se almeno questo appello, così autorevole e amplificato in mondovisione, non cadrà nel vuoto.
Leo Gabbi, Agensir