Bergoglio non svolge il suo compito come un esecutore di un piano prestabilito, ma reagisce ai richiami e agli impulsi del cuore. Di prestabilito rispetto al suo operare c’è il suo essere, cristiano e umano, la sua intelligenza, la sua fede, la sua umanità, la sua storia… Un anno dopo rimane lo stupore che ogni giorno si rinnova con parole nuove e antiche
Elio Bromuri – Chi volesse stendere un resoconto organico su Francesco Papa a un anno di distanza dalla sua elezione, dovrebbe scrivere un libro, come alcuni hanno fatto o stanno facendo, che però rimarrebbe incompiuto, sempre incompiuto perché appena pubblicato sarebbe invecchiato dalla novità detta o fatta da Papa Francesco. La novità e imprevedibilità di parole e gesti è un dato forse caratteriale, legato a una personalità creativa o indotta dalla creatività dello Spirito che abita serenamente in lui e lo rende pronto a ogni soffio.
Bergoglio non svolge il suo compito come un esecutore di un piano prestabilito, ma reagisce ai richiami e agli impulsi del cuore. Di prestabilito rispetto al suo operare c’è il suo essere, cristiano e umano, la sua intelligenza, la sua fede, la sua umanità, la sua storia di figlio di emigrati italiani, la sua esperienza maturata nell’Argentina dei desaparecidos e vissuta tra la complessità confusa e conflittuale del mondo latinoamericano, senza dimenticare la forza e l’ordine interiore forgiato dagli esercizi spirituali di sant’Ignazio. Tutto questo egli lo ha unificato nel nome-simbolo di Francesco, che nella visita ad Assisi (4 ottobre 2013) ha caricato di ulteriori significati rispetto alla primitiva intuizione. Così è per il suo linguaggio, il linguaggio del cuore, come ha detto di recente a una comunità pentecostale protestante: un linguaggio – egli diceva – fatto di nostalgia e di gioia, di nostalgia per la separazione e di gioia per la fraternità ritrovata. “Siamo fratelli”, diceva con voce sommessa e suadente, e possiamo dircelo tra le lacrime come Giuseppe in Egitto quando incontrò i fratelli che lo avevano venduto e si riconobbero.
Questa mi sembra la cifra del pontificato di Francesco, fratello universale, piegato sulle piaghe di Cristo impresse nella carne di tutti coloro che soffrono, che lava e bacia i piedi della ragazza musulmana, abbraccia poveri e ammalati, prende in braccio i bambini. Per essere fratello credibile ha ritenuto necessario spogliarsi di titoli e vesti che potessero tenerlo lontano dalla gente umile e semplice, quella della piazza e quella della casa abitualmente abitata, la modesta dimora di Santa Marta, condivisa con gli ospiti fissi e occasionali.
Francesco è nome universale da quando il Santo di Assisi ha voluto chiamare fratello e sorella anche il sole e la luna, il fuoco e l’acqua, e ogni essere amato da Dio anche se lebbroso, rifiutato ed escluso dalla società civile. Ha detto – con tono di rimprovero – “chi ha pianto” per i naufraghi di Lampedusa? e ha detto pure “chi sono io” per giudicare un fratello che ha una tendenza omosessuale? Ha domandato a se stesso e alla Chiesa intera, con un questionario, “come possiamo avvicinare e considerare fratelli e sorelle” tutte quelle persone che hanno avuto un matrimonio fallito e una famiglia divisa con gravi danni e sofferenze per coniugi e figli?
È il Papa della misericordia e della tenerezza, che ha chiesto alla Chiesa di uscire dalle sue sicurezze difese a suon di “bastonate inquisitorie”, ripiegata su se stessa alzando barriere moralistiche o disciplinari che oscurano la brillante luminosità del Vangelo. La sua attitudine a stare in mezzo alla folla, anche quando è pressante e potrebbe essere pericoloso: “Si deve avere fiducia nella gente”. Essa non è generica accozzaglia di individui, ma è formata da persone amate da Dio, e suo popolo che detiene il motivo e il fine dell’esistenza del pastore. Per questo egli ha marcato la sua identità sacramentale di vescovo e la sua appartenenza ecclesiale alla Chiesa di Roma, presidente nella carità delle Chiese sparse nel mondo. A questo popolo radunato per la sua elezione fin dal primo incontro ha chiesto d’invocare la benedizione di Dio per lui. L’immagine di Francesco curvo davanti alla folla silenziosa e orante in piazza S. Pietro nel momento iniziale del suo pontificato, quando nasce come per germinazione la sua paternità/fraternità universale è stata e rimane nella memoria e nella coscienza collettiva la scintilla che ha acceso una grande luce sulla sua missione.
Vescovo e popolo si danno la mano come due realtà che agiscono sempre insieme. Lo ha ricordato anche nel discorso di Aparecida durante la Gmg. In questi tratti, troviamo anche il senso del rinnovamento pastorale, che suona come una rivoluzione ed esige una conversione: conversione del cuore e conversione pastorale nel porre i poveri al centro, non solo come scelta, ma nel senso di una Chiesa veramente povera.
Un anno dopo rimane lo stupore che ogni giorno si rinnova con parole nuove e antiche, che Francesco ha raccolto nella “Evangelii gaudium”, una “summa” dell’evangelizzazione nel mondo contemporaneo, l’“eterna novità” che è Cristo (n.11), l’unica ragion di vita della Chiesa e dei suoi pastori. Nella sua parola è la gioia dei discepoli e la salvezza del mondo: la gioia del Vangelo, il Vangelo della gioia.