Opere di natura religiosa, come “L’ultima cena”, che fuoriescono dagli schemi e offrono una figurazione insolita
di Francesca Costantino – M’incuriosisce quel ritratto, tutto concentrato di Lev Tolstoj. È alla scrivania, intento a “comporre” pagine di letteratura, accuratamente e con dedizione. Ne ho scoperto l’autore: il pittore russo Nicolaj Nikolaevič Ge (1831-1894). Le rarissime biografie raccontano di un bambino rimasto orfano e di un uomo cresciuto con caparbietà e volontà di affermazione personale. L’arte diventa una ragione di vita, la maniera per esprimere, con realismo, la sua verità. E infatti tutte le sue opere documentano, con rigore autentico, la variegata e straordinaria umanità, dal punto di vista storico e soprattutto ecclesiale. Sono proprio i dipinti di natura religiosa ad aver catturato la mia attenzione, in particolare quelli che mostrano un Cristo insolito e desueto.
Nel dipinto “L’ultima Cena” del 1863, ad esempio, la rottura con il canonico modo di dipingere i soggetti evangelici è definitiva. Gli apostoli non sono a tavola, come ce li aspetteremmo, ma ne occupano lo spazio immediatamente adiacente. Hanno già condiviso le loro scelte e la loro vita con Gesù, hanno fatto comunione tutti insieme ed ora si ritrovano, sbigottiti ed increduli, a conoscere la menzogna di Giuda, a vivere il dramma psicologico di un tradimento. La soluzione figurativa adottata dal pittore insiste sulla contrapposizione di luce e tenebre, simbolicamente determinata dagli apostoli, con un Gesù umanamente pensieroso da una parte, e un espressivo e colpevole Giuda dall’altra, che nell’oscurità tenta invano di coprire la sua vergogna, portandosi un lembo della tunica sul capo.
Del 1889 è invece l’opera intitolata “l’Entrata del Cristo nell’orto del Getsemani”. Anche in questo caso Cristo è ritratto ancora sull’uscio di casa, mentre i discepoli sono già in cammino verso il luogo di preghiera. Sembra quasi avvertire un’esitazione inaspettata di Gesù che, con lo sguardo illuminato dal pallore della notte, si rivolge un’ultima volta al Padre con timore di Figlio, pregandolo di “allontanare quell’amaro calice”. È un intimo e profondo colloquio di cui avvertiamo l’eloquente silenzio, rotto soltanto dall’esortazione dell’amato Giovanni, che accanto a lui sembra dire: “Maestro, dobbiamo andare!”.
Un anno dopo, nel 1890, Nicolaj Ge produce un bozzetto per un omonimo quadro dal titolo “Che cos’è la verità? Cristo o Pilato?”. Giunto al cospetto del prefetto romano, infatti, dopo un estenuante interrogatorio, Gesù afferma di essere venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità dichiarando “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. Al tal punto il prefetto chiede: “Che cos’è la verità?” È racchiuso qui, in quel ravvicinato contatto di sguardi e parole, in quelle richieste e in quei “Tu lo dici”, tutta l’eterna e affannosa ricerca dell’uomo nell’indagare le ragioni della sua esistenza, in continuo conflitto tra egoismo e altruismo, tra immoralità ed etica, tra fede e ragione.
L ’ultimo dipinto è del 1892. Si tratta della “Crocifissione”, forse la prova più complessa dell’artista, per la quale elabora numerosissimi bozzetti. Una rappresentazione dalla drammaticità logorante, in cui la sofferenza non lascia spazio né alla compassione né alla pietà (lo dimostra la figura sullo sfondo, che si allontana con indifferenza dalla scena). È un Cristo in preda ad un’umana sofferenza straziante, colto nell’unico momento in cui sembra quasi staccarsi con forza dalla croce, dalla sua croce, piantata su una terra arida e rocciosa. Io lo sento mentre innalza quell’ultimo, alto e terrificante grido di dolore.