Colpito da una polmonite e da una infezione alle vie urinarie, l’autore di “Cent’anni di solitudine” era stato ricoverato in una clinica di Città del Messico e poi era tornato nella sua casa, dove si è spento ieri all’età di 87 anni. È stato in grado di “leggere” il suo e altri tempi, la sua terra e lo spirito della storia
Così se ne è andato anche Gabriel García Márquez, il cantore di Macondo e di un sud latino-americano che esiste e non esiste nello stesso tempo, così come esistono le cose tangibili di tutti i giorni, ma anche le energie, i sentimenti, i pensieri che non si vedono ma sono reali. Colpito da una polmonite e da una infezione alle vie urinarie, l’autore di “Cent’anni di solitudine” (50 milioni di copie vendute) era stato ricoverato in una clinica di Città del Messico e poi era tornato nella sua casa, dove si è spento all’età di 87 anni. Come ha detto il presidente della Colombia (Márquez era nato in un piccolo paese colombiano, Aracataca, il 6 marzo 1927) lo scrittore è stato un gigante, e i giganti “non muoiono mai”.
Márquez ha rappresentato un insieme di quotidianità e fantasia che è stato chiamato “realismo magico”, etichetta che era già stata usata per la narrativa degli anni Venti in Italia (soprattutto Massimo Bontempelli, ma con agganci nella scrittura – e nella pittura – dei fratelli Savinio e de Chirico) ma anche in Germania e nell’Europa del Nord. Ma negli anni Venti il realismo magico si imbeveva di aristocratico ritorno ai classici e all’ordine simmetrico del Rinascimento. Per Márquez si trattava di immersione nella placenta materna latino-americana per trovarne lo spirito originario, e per questo i nomi che sono stati fatti alla ricerca di parallelismi artistici, e culturali, come Dickens, Hoffmann, Hemingway e Kafka non convincono e anzi rischiano di portare fuori strada chi non conoscesse ancora lo scrittore colombiano. La sua magia sta proprio nella capacità di rendere la potenza trasformatrice di questo spirito, senza andarlo a cercare nelle lande nascoste o in romantiche lontananze, o nelle filosofie d’occidente. La riscoperta delle origini degli eroi di Márquez è una geniale commistione di recupero dei padri e delle madri individuali, ma anche delle origini telluriche, archetipe, riferite ad un “prima” quasi edenico, anteriore ai colonizzatori e allo sfruttamento.
“A questo punto, impaziente di conoscere la propria origine, Aureliano passò oltre. Allora cominciò il vento, tiepido, incipiente, pieno di voci del passato, di mormorii di gerani antichi, di sospiri di delusioni anteriori alle nostalgie più tenaci”. Raramente la ricerca dell’inizio è stata detta con parole così legate allo spirito, alla religione del “genius loci”, emanazione di una forza che tutto crea e tutto comprende. Márquez si è sempre tenuto lontano dalla tentazione del modello politico perfetto, deriva di un hegelismo mai completamente sopito nella storia del Novecento, ed anche i suoi rapporti con Castro e Chavez non hanno mai rasentato l’idolatria o la celebrazione eroica. Realismo magico vuol dire pur sempre realismo, e Márquez sapeva bene che la politica perfetta è l’anticamera degli inferni della storia, qualsiasi sia il colore sventolato dalle bandiere dei carnefici. Il suo sdegno per il colpo di stato di Pinochet in Cile era uno sdegno umano, per la dignità calpestata delle persone. Le sue opere più importanti, a parte “Cent’anni di solitudine” (1967), dichiarata l’opera di lingua spagnola più importante dopo il Don Quijote di Cervantes, sono “L’autunno del patriarca” (1975), “Cronaca di una morte annunciata” (1981), “L’amore ai tempi del colera” (1985), “Dell’amore e di altri demoni” (1994).
Il conferimento del Nobel per la letteratura nel 1982 è stato, una volta tanto, il giusto riconoscimento di un autore che è stato in grado di “leggere” il suo e altri tempi, la sua terra e lo spirito della storia, che non è fatto, come Márquez aveva intuito, di materia inerte o al contrario di ideale completamente avulso dalla realtà, ma dal confronto con tutti gli aspetti dell’esistente, da quello popolare a quello religioso.
“A questo punto, impaziente di conoscere la propria origine, Aureliano passò oltre. Allora cominciò il vento, tiepido, incipiente, pieno di voci del passato, di mormorii di gerani antichi, di sospiri di delusioni anteriori alle nostalgie più tenaci”. Raramente la ricerca dell’inizio è stata detta con parole così legate allo spirito, alla religione del “genius loci”, emanazione di una forza che tutto crea e tutto comprende. Márquez si è sempre tenuto lontano dalla tentazione del modello politico perfetto, deriva di un hegelismo mai completamente sopito nella storia del Novecento, ed anche i suoi rapporti con Castro e Chavez non hanno mai rasentato l’idolatria o la celebrazione eroica. Realismo magico vuol dire pur sempre realismo, e Márquez sapeva bene che la politica perfetta è l’anticamera degli inferni della storia, qualsiasi sia il colore sventolato dalle bandiere dei carnefici. Il suo sdegno per il colpo di stato di Pinochet in Cile era uno sdegno umano, per la dignità calpestata delle persone. Le sue opere più importanti, a parte “Cent’anni di solitudine” (1967), dichiarata l’opera di lingua spagnola più importante dopo il Don Quijote di Cervantes, sono “L’autunno del patriarca” (1975), “Cronaca di una morte annunciata” (1981), “L’amore ai tempi del colera” (1985), “Dell’amore e di altri demoni” (1994).
Il conferimento del Nobel per la letteratura nel 1982 è stato, una volta tanto, il giusto riconoscimento di un autore che è stato in grado di “leggere” il suo e altri tempi, la sua terra e lo spirito della storia, che non è fatto, come Márquez aveva intuito, di materia inerte o al contrario di ideale completamente avulso dalla realtà, ma dal confronto con tutti gli aspetti dell’esistente, da quello popolare a quello religioso.
Marco Testi – SIR