Home Cinema “Così ho lavorato con Toni Servillo”. Intervista al regista Claudio Cupellini

“Così ho lavorato con Toni Servillo”. Intervista al regista Claudio Cupellini

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Divenuto noto soprattutto per il suo “Una vita tranquilla” con Toni Servillo, Claudio Cupellini ci parla del suo prossimo film, del cinema italiano, ma anche della sua collaborazione con l’attore casertano

di Michele Menditto

Regista veneto, classe 1973, Claudio Cupellini è tra i giovani cineasti più interessanti del panorama italiano. Esordisce, dopo alcuni cortometraggi, con un episodio del film collettivo “4-4-2 – Il gioco più bello del mondo” (2006)e ottiene una certa visibilità con “Lezioni di cioccolato” (2007). Ma è soprattutto con “Una vita tranquilla” (2010) che Cupellini trova notorietà e consensi: il suo film, presentato al festival di Roma, vince il Marc’Aurelio per la migliore interpretazione di Toni Servillo. Ha risposto a qualche nostra domanda sul suo cinema, sul prossimo progetto che lo sta tenendo impegnato, e sul metodo seguito per dirigere Servillo.una_vita_tranquilla

Il noir è un genere che poco appartiene alla tradizione del cinema italiano, dominato dal dramma e soprattutto dalla commedia. Dopo l’esperienza con “Una vita tranquilla”, pensa che il noir possa essere un terreno fertile verso cui indirizzare il cinema italiano futuro?

Ho sempre detto che “Una vita tranquilla” è un finto noir, ma è chiaro che aver creato una cornice criminosa, un rapporto padre-figlio così intenso e un legame col passato, non può che ricondurre a quel genere. Non è ovviamente un terreno “nostro”, penso a tutto il cinema americano e francese che su questi territori hanno dato il massimo, ma è sempre più evidente che oggi anche i registi italiani prediligono certe atmosfere e certi luoghi, non necessariamente quelli più giovani, penso anche al recente Virzì de “Il capitale umano”. Forse è il genere più aderente all’oggi, credo che i colori plumbei del noir siano molto aderenti alla società odierna, non solo italiana.

Toni Servillo, fresco del successo di “La grande bellezza”, è notoriamente un attore che spesso si impone con la propria personalità sui personaggi che interpreta. In “Una vita tranquilla” invece lei è riuscito a contenere la sua solita energia recitativa, per un personaggio più anonimo e meno appariscente. Come ha lavorato con lui per ottenere questo risultato?

Beh io ero praticamente un regista sconosciuto, lui un attore affermato. Ha scelto di lavorare nel mio film dopo aver letto la sceneggiatura, che gli era piaciuta parecchio. Lì è iniziato il nostro rapporto. E’ chiaro che il primo pensiero è stato quello di superare un certo timore reverenziale, di non venire sorpresi dalla sua personalità forte.
Mi fa piacere che si noti che nel mio film Servillo ponga anche accenti diversi rispetto ad altri suoi personaggi. All’inizio infatti mi ero detto: che senso ha fargli fare le stesse cose? Cercherò di convincerlo a fare una recitazione più viscerale, di pancia. Sul set durante le prove abbiamo cercato di non dare mai il 100% ma di lasciare qualcosa di indefinito per il momento delle riprese. E’ stato bello con lui scambiarsi opinioni, anche diverse. Ricordo che in una scena io insistevo a proporgli una certa cosa e lui non era così convinto. Ma poi quando si è rivisto sul monitor ha detto: hai ragione tu. Credo di aver conquistato la sua definitiva fiducia in quel momento.

Sta per cominciare un nuovo lavoro cinematografico, ce ne può parlare?

Il mio prossimo film, che inizierò a maggio, non sarà una storia tanto lontana da questa (Una vita tranquilla, ndr). Però sarà più emotivo, partirà da una storia d’amore, ma avrà comunque dei tratti molto duri. Vorrei però lasciare anche uno spiraglio di positività. Sono molto contento del cast, tra gli italiani ci sono Elio Germano, Valerio Binasco e Alba Rohrwacher.

Molti giovani registi del Sud e del Nordest, a cui anche lei appartiene, stanno raccontando, pure con forte realismo, gli aspetti più crudi e contraddittori delle nostra società. Pensa sia una tendenza che nei prossimi anni troverà ancora più spazio sul grande schermo?

Verissimo. Secondo me si sta riflettendo sulla società di oggi con più attenzione e interesse. Non si può restare sganciati da una realtà oggi davvero difficile per molte persone, c’è una lotta tra la rapacità e la purezza che non ci lascia indifferenti, scavando nel marcio della società. Sì: credo che ci sia davvero un bisogno di raccontare l’Italia e la società di oggi senza far finta che tutto funzioni. Certo la commedia può essere ancora un genere importante, ma dipende da come la affronti. Penso allo “Zoran” di Oleotto: ecco credo che quel cinema sia vitalissimo, come nella vera grande tradizione del nostro cinema. Si ride, ma i problemi affiorano con grande sensibilità e intelligenza.

Ci sono punti di riferimento particolari che hanno influenzato e influenzano il suo cinema?

Sono stato come tutti un grande divoratore di film, ma oggi tendo a non catalogare più niente e a farmi sorprendere dal singolo film. Non mi lego più a un regista a priori. Certo se devo partire da qualcuno dico Truffaut, perché non possiamo non dirci stregati dal cinema. E da lì passando per Hitchcock, tutta la New Hollywood, perché è stata fondamentale per il cinema d’oggi. Ovviamente Malick, come non amarlo almeno fino a “The tree of life”? Poi il noir ovviamente, Siodmak e tutti gli altri. Oggi mi appassionano due registi estremamente diversi: Wes Anderson e Jacques Audiard. E tra i film dell’ultimo anno adoro “La gabbia dorata” di Diego Quemada-Diez.

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