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Editoriale / Periferie, spazi da vivere

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di Grazia Biasi

Se dico carità, a cosa pensi?
Un uomo che non entrava in una chiesa da vent’anni si accostò titubante ad un confessionale. Si inginocchiò e, dopo un attimo di esitazione, raccontò tra le lacrime: «Ho le mani sporche di sangue. È stato durante la ritirata in Russia. Ogni giorno moriva qualcuno dei miei. La fame era tremenda. Ci avevano detto di non entrare mai nelle isbe senza avere in mano il fucile, pronti a sparare al primo cenno di… Dov’ero entrato io, c’erano un vecchio e una ragazza bionda, dagli occhi tristi: «Pane! Datemi del pane!». La ragazza si chinò. Pensai che volesse prendere un’arma, una bomba. Sparai deciso. Cadde riversa.
Quando mi avvicinai, vidi che la ragazza stringeva in mano un pezzo di pane. Avevo ucciso una ragazza di 14 anni, un’innocente che mi voleva offrire del pane. Ho cominciato a bere per dimenticare: ma come? Mi può perdonare Dio?
».(Bruno Ferrero, L’ho uccisa per un pezzo di pane).
Troppi fucili carichi di tensioni e di rancori, di paure mai confessate e messe lì a covare, finché non sprigioneranno violenza, sia pure solo quella delle parole, senza dare il tempo alla carità di compiersi, di realizzare se stessa.
Ma quale carità?
Il pensiero per un attimo è andato alle tre missionarie saveriane uccise in Burundi l’8 settembre: “coraggiose”, così le hanno descritte, perché il loro pezzo di pane l’hanno offerto per lunghi anni, senza temere di spaventare qualcuno, desiderando di vivere in quella terra fino alla morte. Così è stato, quando una sera, la paura e la rabbia del loro assassino si sono accanite contro di esse non riuscendo tuttavia a trarne alcun vantaggio. Poca cosa il bottino che quel giovane è riuscito a portare via.
Ma il pensiero si spinge oltre e guarda all’intero mondo in cui uomini e donne hanno scelto di spezzare il pane con gli altri, oltre che spezzarsi la schiena, per costruire case e scuole ai più poveri, per compiere chilometri a piedi o in bicicletta portando parole, non di paura ma di conforto, parole di speranza e non di rassegnazione, parole di fiducia e non di disprezzo. Portando la Parola.
La Chiesa dedica l’intero mese di ottobre, ormai dal 1926, al ricordo particolare delle missioni. Quest’anno il tema della Giornata missionaria mondiale (19 ottobre) è Periferie,cuore della missione. Quello della “periferia” è un luogo caro a Papa Francesco, che in più occasioni, come nel messaggio per la Giornata – diffuso l’8 giugno, solennità di Pentecoste – ci chiama a muovere passi spediti verso di essa, che si tratti di un luogo concreto o di un disagio sociale, morale, affettivo da soccorrere. Un luogo simbolo di povertà – umana e materiale – in cui il Papa ci spinge con sollecitudine ad essere e a fare con gioia, senza compiacerci delle nostre gesta, così come fu per i Settantadue che Gesù inviò, raccontati dall’evangelista Luca.Layout 1
Dare e proseguire; offrire e non pretendere nulla in cambio con il rischio di non essere compresi, di suscitare paura, cinismo, di essere malmenati con le parole.
È questa la nostra carità?
L’attenzione che questo mese vogliamo dare alle missioni distribuite nel mondo rappresenta l’azione concreta perché la Parola di Dio raggiunga le periferie geografiche attraverso l’impegno di sacerdoti, religiosi e religiose, laici che sono partiti per donare quel pezzo: il dono che essi fanno agli ultimi, parte dalle nostre mani.
È un’azione legata, congiunta, partecipe dei progetti e dei miracoli che si compiono nei più sperduti villaggi dei deserti africani o nelle baraccopoli latino-americane. Un filo ci unisce invisibilmente alla responsabilità che ogni giorno all’alba uomini e donne di missione caricano sulle proprie spalle per il viaggio (incerto) che li attende e si fa strada tra le paure e i ritagli di piccole gioie di quella gente lontana.
Un pensiero passa in rassegna le periferie di questa nostra terra: il disagio di giovani mamme e papà che scelgono in ogni modo e con dignità di non far mancare il necessari; le richieste silenziose, discrete, nascoste che “bussano” ogni giorno alle porte delle sagrestie; la delusione e la rassegnazione dei più anziani accompagnate dal sorriso quando è un vicino di casa a “farsi prossimo”; la periferica solitudine di una giovane sedicenne che poche ore fa ho accompagnato al Centro diocesano per la famiglia per un colloquio con lo psicologo.
Quale grande periferia! Sconfinata e sterile! Dove lo spazio rischia di affollarsi fino ad assumere le sembianze di una nuova realtà abitata e popolosa nelle sue povertà umane e materiali. È la periferia che rischiamo di allargare e allagare di dolore finché non avremo deciso di abitarla con loro e insieme bonificarla. Una missione di carità silenziosa, concreta e gioiosa capace di rispondere alla “tristezza individualistica che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata (Evangeliigaudium, 2). Ma questa terra la custodisce una risposta: quella di tanti piccoli gesti che si muovono quotidianamente, senza spot o volantinaggio. Gesti che partono dalle case, dalle chiese, dalle caritas parrocchiali, dalla caritas diocesana, perché c’è un filo che ci unisce invisibilmente e ci tiene in cordata… Invisibilmente.

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