La causa prima delle difficoltà che i giovani italiani incontrano nella ricerca di un lavoro risiede nel sistema scolastico, dove la teoria è troppa e la pratica nella maggior parte dei casi nulla
Nicola Salvagnin – C’è anche il frutto di un grosso equivoco, dietro le spaventose percentuali di giovani (e meno giovani) disoccupati o parzialmente occupati. Il frutto di una pianta fatta crescere in buona fede negli anni scorsi, quella che doveva dare una laurea a milioni di italiani per renderli degni di affrontare il futuro. Essere “dottore” in qualcosa, purchessia.
Risultato: un semi-analfabeta un lavoro magari lo trova; un laureato in discipline umanistiche no. Cioè: non trova il lavoro conseguente ai suoi studi. E di andare a lavare piatti nei ristoranti, non ne ha né la propensione, né l’interesse. “Ho studiato tanti anni e con tanto sacrificio per ridurmi a questo?” si chiede il giovane laureato italiano.
Purtroppo la stanza dei concorsi pubblici è da anni chiusa a chiave; quella dell’insegnamento è ancor più blindata. I posti da impiegato generico sono in rapida via d’estinzione. Le belle foto di giovani che mollano il precariato intellettuale in città per coltivare la vigna, sono solo la prova provata di intere generazioni costrette ad arrabattarsi, e non sono nemmeno veritiere. Perché – come ha smascherato una recente indagine di Nomisma – di giovani che ritornano al lavoro dei nonni in campagna, ce ne sono veramente pochi, sia in generale sia in rapporto ad altri Paesi europei come Francia e Germania. Per una ragione sostanziale: spargere letame non è un’aspirazione di vita condivisa in larga scala, e in Italia non fa nemmeno guadagnare granché.
Ma non occorreva Nomisma a scoprire che il lavoro di raccolta nei campi è cosa ristretta ad extracomunitari e pensionati. Che professioni come il piastrellista, l’addetto al montaggio di arredi o il cuoco sono quasi completamente nelle mani di chi è arrivato qui con meno titoli, meno scrupoli e più bisogno. Che si fatica a trovare ragazzine disposte a lavorare come commesse nei fine settimana; che molte mansioni di servizio alla persona (dalla colf alla badante fino alla stessa baby sitter) sono assai carenti di manodopera italiana; che le scuole di ebanisteria chiudono per totale mancanza di allievi.
Insomma c’è da ripensare molto, nel sistema formativo italiano, con un’operazione verità che smonti miti consunti e che si adegui al mondo che c’è, e non a quello che vorremmo.
Qualcosa sta succedendo, basti guardare il boom delle iscrizioni nei corsi che formano professionalità para-mediche, quando fino a qualche anno fa non si trovava un’infermiera se non pescandola all’estero. Ma non è possibile che gli iscritti ad ingegneria meccanica di una grande università del Nord siano solo 400 in un anno, e che già al quarto anno siano ridotti ad un sesto. Pochi fortunati che si sono impegnati, ma lo squilibrio nel sistema è radicale se si considerano le decine di migliaia di iscritti a Lettere… Che mai faranno il giorno dopo la laurea?
Dall’Europa potrebbero arrivare a breve imponenti finanziamenti per opere basilari, che dovrebbero realmente aiutarci a rilanciare il Pil. Ma non l’occupazione, se poi non ci sarà personale addetto a posare cavi e a collegare centraline, a costruire piloni di ponti o a realizzare opere di contenimento idrico.
Un monito particolare va rivolto al genere femminile, ormai tutto scolarizzato e pronto per entrare nel mondo del lavoro, ma troppo sbilanciato su pochi e identici sbocchi, quasi tutti privi di prospettive di lavoro. Sono infatti le donne a pagare il tributo più pesante al mostro della disoccupazione e della sottoccupazione, e non ci saranno sgravi governativi o comunitari che tengano a creare posti di lavoro che non ci sono.
fonte Agensir