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Alla base della povertà una mutua “chiusura” tra i gruppi sociali. Parla l’esperta

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L’antropologa Anna Casella ritiene che una certa tendenza a schivare il confronto con altre realtà umane sia causa della “stratificazione sociale”

Maurizio Calipari – Qualche tempo fa, una prestigiosissima scuola privata d’élite di Brighton, il Varndean College, ha organizzato una strana “gita” per i suoi studenti. Li ha portati al The Den Stadium di Londra dove giocava il Millwall Football Club, mediocre squadra della serie B inglese, ben conosciuta per i suoi temibilissimi “hooligans”, violenti e facinorosi. Il fine della gita però non era di carattere sportivo, bensì quello di proporre “una gita propedeutica allo sviluppo intellettuale” degli alunni. Lo scopo dichiarato era “imparare qualcosa sulle abitudini della classe operaia e sulle caratteristiche di taluni suoi appartenenti, quali mascolinità, omofobia e razzismo”. Insomma, andare a vedere di persona i tifosi della “working class” per “studiare come sono fatti i poveri”, un esperimento di “sociologia da zoo”. E perché l’esperimento riuscisse meglio, agli studenti è stato suggerito di presentarsi allo stadio “travestiti” da classe operaia, “mangiando apple-pie e bevendo tè”, in modo da non condizionare i comportamenti spontanei del “popolino”. Una simile vicenda, al di là del Paese dove si è svolta, suggerisce d’interrogarsi più profondamente sugli aspetti antropologico-culturali che ruotano attorno alla percezione reale del fenomeno del “disagio sociale” ai nostri giorni, soprattutto da parte dei giovani. Abbiamo raccolto il parere della professoressa Anna Casella, docente di antropologia culturale presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica.
culture diverseProfessoressa, come commenta questo episodio?
“Mi pare si possano cogliere vari aspetti. Innanzitutto un dato di fatto, due gruppi con un’enorme distanza sociale, tale da rendere impossibile ogni interazione tra loro se non pianificandola. Siamo in presenza di una stratificazione sociale così pronunciata da somigliare quasi ad una piccola ‘apartheid’. Purtroppo è quello che sta accadendo anche nella società italiana, i dati statistici indicano una stratificazione sociale crescente e sempre più percettibile. Le persone stanno con i loro ‘simili’ e non incrociano gli altri. Nel caso specifico, la distanza sociale diventa quasi ‘segregazione’, anche se a parti invertite. Sono gli studenti di questa scuola d’élite, così protetti e privilegiati, ad apparire in qualche modo ‘segregati’, non hanno altra conoscenza se non il loro mondo. Un aspetto positivo è che, organizzando quest’iniziativa, quantomeno qualcuno ha dimostrato di porsi il problema provando a superarlo, pur con modalità discutibili”.
Davvero i giovani di oggi, soprattutto se benestanti, possono pensare che il disagio sociale sia qualcosa da osservare “dietro la protezione di un vetro” come allo zoo?
“Non credo che sia un problema solo dei giovani. L’iniziativa di questa scuola sarà stata pianificata dagli insegnanti, cioè da educatori adulti, sono loro che hanno dato quest’impostazione. Detto questo, è vero che la ‘diversità’ è sempre spiazzante, tanto per i giovani quanto per gli adulti; tra tutti i principi sociali, quello forse più difficile da introiettare è proprio il ‘principio d’uguaglianza’. Soprattutto in periodi di crisi, com’è l’attuale, cresce la tendenza a ‘distinguersi’ dagli altri. In un simile contesto, può nascere l’idea di promuovere un’interazione sociale a livello ‘minimale’, ‘andare ad osservare’ e niente più, mentre ci sarebbe la necessità d’interagire. Ma spesso mancano gli strumenti sociali per una corretta interazione tra gruppi così diversi”.
Ritiene che sia un problema solo culturale o anche etico?
“Nella misura in cui questo problema coinvolge le persone e la loro interazione esso rappresenta anche un problema etico. Basti pensare, ad esempio, al modo in cui certi politici, per convinzione o demagogia, parlano degli stranieri, sia perché questo modo di fare produce poi comportamenti e decisioni negative sugli altri, sia perché i loro presupposti teorici talvolta confinano col razzismo vero e proprio”.
Quali aspetti antropologici ritiene siano stati fraintesi in questa iniziativa “educativa”?
“Da quello che si riesce a intuire, alla base c’è un giudizio molto pesante sulla ‘working class’, tendente a identificare ‘tout court’ la povertà con la devianza, cosa evidentemente errata. Ma si può comprendere che, dal punto di vista di un osservatore ‘socialmente privilegiato’ e sprovvisto degli adeguati strumenti di analisi sociale, vi possa essere la tendenza a semplificare realtà sociali complesse, così diverse dalla propria condizione, magari riducendole a stereotipi diffusi. Questo probabilmente è stato il fraintendimento, insieme al fatto di attribuire pregiudizialmente ad altri, alla classe operaia in questo caso, caratteristiche negative come mascolinità, omofobia e razzismo”.
Cosa suggerirebbe, soprattutto ai giovani, per un approccio conoscitivo realistico e costruttivo del disagio sociale?
“Un grande antropologo italiano, Ernesto De Martino, diceva che siamo tutti un po’ ‘etnocentrici’, cioè un po’ razzisti, basta esserne consapevoli. Per prima cosa, dunque, serve prendere coscienza dei pregiudizi e stereotipi che abbiamo nei confronti degli altri, soprattutto se molto distanti dal nostro mondo e senza alcuna familiarità con noi. Secondo, guardarsi dalla retorica che spesso ‘inquina’ la lettura del disagio sociale e della povertà. Occuparsene richiede in realtà una continua ‘conversione’ personale, cioè la capacità di modificare i propri atteggiamenti e il proprio modo di leggere la realtà, riconoscendone la complessità. Sul piano pratico, bisognerebbe moltiplicare gli ambiti e i canali di dialogo e ‘familiarità’ fra gruppi sociali diversi; non si può certo comprendere il disagio sociale limitandosi a degli approcci sporadici con esso”.

fonte Agensir

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