Si rincorrono voci tra la popolazione: saranno 300? O forse 40? Stiamo parlando di numeri, ma in realtà sono persone. Uomini in fuga dalla guerra e dalla fame, dall’odio e dalla violenza. Non sappiamo i loro occhi cosa abbiano visto, né la loro pelle quale dolore abbia provato.
E’ presto per ogni tipo di giudizio, tuttavia la popolazione chiede qualche spiegazione in più.
Dubbi, preoccupazioni, riflessioni a voce alta non si negano a chi li esprime, così come non si nega l’accoglienza a chi la chiede.
Siamo italiani non solo davanti alla tv a tifare per una squadra che ci rappresenta, ma siamo italiani anche quando l’Italia compie la scelta di accoglierli e non mandarli indietro, in balìa del mare o del padrone di turno.
È giusto che la cittadinanza ottenga garanzie e chiarimenti, che lo Stato sia presente accanto ai residenti e ai nuovi arrivati, che rispetto e civiltà siano un dovere da entrambe le parti.
È giusto anche, per chi dice di credere, riflettere su quella citazione a cui molti sono affezionati (speriamo non solo intellettualmente), “ero forestiero e mi avete accolto“.
Rimandiamo la nostra riflessione per lasciare spazio alla lettera dell’amico e collaboratore di Clarus, Maurizio Sasso.
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Era da poco iniziata la partita di calcio allo Spinelli di Alife.
Si giocava la gara del Campionato di Promozione che vedeva la locale squadra battersi contro la formazione del Ripalimosani. Ero tra il pubblico e in tribuna tra i tifosi c’era anche un gruppo di ragazzi di colore. Si trattava dei profughi africani che da qualche mese sono ospitati in un centro di accoglienza ad Alife. Sappiamo poco di loro. Ma sui social network, negli ultimi giorni, non si parla di altro. Si dice che a breve ne arriveranno altri. Notizie confuse e da nessuna istituzione confermate o disattese.
Ieri non li ho contati, saranno stati una quindicina o poco più. Sono arrivati in due gruppi separati, in rigorosa fila uno dietro l’altro, ordinati e silenziosi, rispettosi di un pubblico che attraversavano. I loro grandi occhi, gli sguardi spauriti che guardavano in basso e, mentre si sedevano in tribuna, un timido cenno di saluto rivolto al vicino italiano. Un’immagine che mi ha rimandato ai deportati di guerra, una foto triste.
Ho pensato a mio nonno che in fila indiana si spostava durante la sua prigionia in Africa e ai suoi mille passi che ogni volta lo portavano verso un futuro che non voleva.
Al quarantesimo minuto il vantaggio dell’Alife. Il pubblico esulta, si alza in piedi.
L’ultimo a sedersi e a concludere l’applauso è stato proprio uno di loro.
Erano tra di noi e hanno tifato con noi fino alla fine.
La crisi economica che ci attanaglia, la crisi politica e la mancanza di lavoro offrono spesso spunti polemici e nessuno può avere la presunzione di giudicare un pensiero libero. Sui social si leggono opinioni contrastanti, pro e contro il ruolo solidaristico e d’integrazione con cui gli alifani si stanno confrontando. Ogni perplessità, ogni paura merita di essere rispettata.
Mi domando: “Siamo davvero pronti ad accoglierli?”