Sant’Agata, nobiltà d’animo e fiducia incondizionata in Dio
di Francesca Costantino – Francesco Guarino (o Guarini) è un pittore a noi quasi conterraneo, ma sconosciuto ai più. Solofra, piccola cittadina della provincia di Avellino, preserva il ricordo della sua nascita nel 1611. Allievo a Napoli del più famoso pittore Massimo Stanzione, e poi affermato artista, negli anni Trenta del Seicento, Francesco elabora una splendida e piccola tela per la Certosa di San Martino. Essa rappresenta “Sant’Agata” ed è datata 1640. È una delle opere più “vellutate”, sensuali e seducenti di tutta l’arte seicentesca napoletana. La santa, vergine e martire del III secolo d.C., è una giovane e ricca donna catanese, incantevole per il suo aspetto, non solo esteriore: una certa nobiltà d’animo e purezza di sentimenti traspare dalle sue corporee forme.
È probabilmente la scelta di consacrare la sua vita a Cristo a renderla così “diversamente vera”, tanto da invaghire forsennatamente il proconsole della regione siciliana, Quinziano, che non solo le impone di rinnegare la fede ma altresì di sposarlo. Alcune leggende riportano un primo rifiuto di Agata a cui segue un periodo di violenta “rieducazione” presso le prostitute del palazzo reale e la successiva tortura, con lo stiramento delle membra, lo scuoiamento con pettini di ferro e lamine infuocate ed infine, l’atroce strappamento dei seni con enormi tenaglie, supplizio che è stato adottato dall’iconografia popolare per caratterizzare la sua immagine.
Nel dipinto di Guarino, infatti, la vergine si offre con un ritratto a mezzo busto; appoggia delicatamente la mano destra sul seno, ancora sanguinante, e guarda dritto, negli occhi dell’osservatore: uno sguardo “affilato” e profondo, misto di lacerante dolore e di estrema dolcezza, che solo l’affidamento alla divina volontà può dare. Lo stile e il colore adottati dal pittore, inoltre, contribuiscono a determinare quel forte impatto emotivo e quella viscerale partecipazione dello spettatore, tipicamente seicentesca.
Il naturalismo classico e delicato della figura, infatti, la tavolozza dei bruni accostati al bianco candore delle vesti e l’intenso chiaroscuro, dimostrano tutta l’aderenza dell’artista alla lezione di Caravaggio, e Ribera ma anche l’approfondita conoscenza di Guino Reni e dei pittori emiliani.