All’indomani della messa in onda in Rai della fiction dedicata a Pietro Mennea, pubblicammo un articolo dell’agenzia Sir in cui si descrivevano – secondo il giornalista Carlo Gagliardi – verità o eccessive finzioni sulla vita del campione di Barletta.
La sorpresa, ma anche l’onore per la nostra Redazione, è stata una telefonata da parte del fratello del grande atleta, Vincenzo Mennea, desideroso di raccontare un’altra versione dei fatti: la verità che la fiction non è riuscita a “tradurre”.
A lui, e agli altri fratelli Luigi e Giuseppe va il nostro ringraziamento per aver scelto Clarus mensile e per averci accordato fiducia.
La Redazione – La fiction che ha unito gli italiani e fatto emozionare, rispolverando il senso di appartenenza ad una Nazione che deve ai successi dello sport l’occasione per tornare a sentirsi famiglia, nonostante le divisioni politiche, le tensioni sociali.
Pietro Mennea, la freccia del Sud ha unito gli italiani, allora come oggi.
Oltre sei milioni di telespettatori hanno seguito la seconda puntata andata in onda su Rai Uno il 30 marzo: occasione per rivivere gli eventi storici e sportivi degli anni ’70, di un’Italia che sognava di essere nuova, di giovani che puntavano su se stessi per un futuro migliore. E così anche per il giovane barlettano, determinato a raggiungere un traguardo dopo l’altro.
La libertà degli autori della fiction (Ricky Tognazzi è tra gli autori e ne ha curato la direzione), alle prese con il sudore del giovane Pietro, dapprima gracile, poi una catena di muscoli alle prese con ritmi serrati e convulsi di allenamento, incattivito dalla voglia di vincere e talvolta noncurante delle attenzioni femminili che lo circondano, si scontra oggi con il disappunto della famiglia Mennea, con i fratelli di Pietro – Luigi, Vincenzo, Giuseppe – rimasti a Barletta a tenere viva una memoria poco concorde con quella andata in onda in Tv.
«I nostri genitori hanno sempre condotto una vita dignitosissima, aiutando essi per primi chi ne aveva bisogno, abitando sempre e soltanto al primo piano del civico 10 in via Pier Delle Vigne, diversamente da ciò che abbiamo visto in tv, dove le scene collocavano la nostra famiglia nel sottano di un’abitazione».
Il movimento, l’intreccio dei fatti – storia e fantasia – l’andamento della trama non è piaciuto a chi, depositario della verità sull’infanzia e la storia dell’atleta Mennea non è stato coinvolto nel racconto, né ha concesso liberatorie ai produttori sulle vicende di famiglia: «Si parla dei nostri genitori defunti, di noi fratelli, senza che ci sia stato alcun confronto o un parere sui contenuti. La descrizione di Pietro che compare nelle scene non corrisponde sempre alla verità e questo non onora la nostra famiglia né la figura di mio fratello; l’aver dovuto raccogliere una storia in poche ore di film ha reso il lavoro un concentrato “eccessivo” in cui luoghi, fatti e persone non corrispondono al vero, come per esempio la storia d’amore con la ragazza che poi è diventata sua moglie».
Un particolare, quest’ultimo, giustamente chiarito ai telespettatori nei titoli di coda finali.
Caso simile quando nel 2007, sempre su Raiuno andò in onda la fiction Rino Gaetano – Ma il cielo è sempre più blu. Anche in quel caso, a difendere l’identità del cantante calabrese, icona della musica italiana tra gli anni ’70 e ’80, fu la sorella Anna.
In entrambi i casi, si è trattato di successi televisivi che hanno raccolto il 26% (Rino Gaetano) e il 25% (Pietro Mennea) di share, pari ad incassi economici da capogiro.
Mennea e la famiglia.
«I nostri genitori ci hanno garantito un’infanzia modesta tanto che mio fratello non ha mai corso con le scarpe rotte!». Per un familiare, direttamente coinvolto nella storia del grande sportivo, può rappresentare una mancanza di rispetto aver visto in tv il piccolo Pietro correre con scarpette inadeguate e malandate, perché ogni storia non è solo sequenza di fatti e avvenimenti celebrativi, ma di sentimenti, scelte, difficoltà, e soprattutto dignità ancora da difendere.
A questa dignità fa ripetutamente appello Vincenzo a nome dei suoi fratelli ricordando la serenità della propria famiglia, dei genitori mai manchevoli nei confronti della formazione dei figli. E poi sempre dalle parole di Vincenzo, il racconto dell’umanità di Pietro, le telefonate a casa prima di ogni gara, la fragilità emotiva del campione, gli amici, le relazioni, le fidanzate, la serena e piacevole libertà di essere in mezzo alla gente, le confidenze ai fratelli prima di ogni pressante manifestazione sportiva.
«Mio fratello, nel contesto mediatico di questo momento, è stato persino definito anaffettivo, patologicamente incapace di vivere e manifestare sentimenti, ma io a voce alta voce smentisco con forza tutto questo…» È nella natura di ogni uomo, in questo caso di un giovane del Sud, amare e soffrire per amore, vivere di sentimenti e di affezioni: «Per essere una persona autentica, ma soprattutto un grande, bisogna anche soffrire e non sempre sapere perché si soffre; e anche, avere paura del futuro, avvertire lo scorrere del tempo e sentirsi non più adeguati. In televisione abbiamo visto un Mennea innamorato, ma lo stesso, come altri esseri umani, aveva paura dell’amore, temeva di perdere la donna amata». Il racconto di Vincenzo prosegue, mentre il ricordo va agli aspetti più umani, più belli da ricordare del campione barlettano: «Il talento può essere nient’altro che una dote naturale, o lo si può acquisire attraverso sacrifici, gli allenamenti. Ed è proprio la parola sacrificio una di quelle che meglio esprime la passione con cui tutto è avvenuto: gli allenamenti e gli sforzi di mio fratello e il sacrificio d nostra madre, la paura di una madre, che è alla ricerca dell’affermazione e del talento del proprio figlio. Questo è sicuramente un atto d’amore personale di una mamma verso il proprio figlio».
Mennea e lo sport.
«Quella di Pietro è stata una scelta di vita». Proseguono così le chiarificazioni e il racconto di Vincenzo. «Nessuno sforzo sovrumano imposto, ma la sua libera decisione di raggiungere traguardi sempre nuovi, con determinazione e convinzione». Quanto al rapporto con il professore Vittori, allenatore in quegli anni della Nazionale di Atletica, amico della famiglia Mennea, c’è da dire che «Se il professore non avesse avuto di fronte a sé un personaggio con la fibra e la forza di mio fratello non avrebbe raggiunto gli eccellenti risultati di quegli anni».
Una scelta di vita radicale. L’atletica e poi tutto il resto. Nessuna donna a bordo pista per ammiccare al campione, ma si sa che una fiction senza il minimo sentimentale come quello spalmato sulla storia di Pietro Mennea tradotta per la televisione, rischia di tirare meno rispetto ad altre.
Lo sport, quello vero, fatto di sudore, medaglie, sacrifici, tecniche è stato difficile da tradurre per la serie andata in onda su Raiuno, e gli autori e registi che ci provano ogni qualvolta si parla di sport, sanno di lanciarsi in imprese che difficilmente corrispondono alla resa reale. A tal proposito, è intervenuto su Repubblica.it il giornalista Enrico Sisti, piuttosto severo nei confronti della fiction: “È completamente assente il desiderio di aprire al mondo dei non sportivi le verità, gli snodi e le bellezze di questa tremenda disciplina (la velocità), che sono la ragione per cui Mennea è esistito: si vuole soltanto comunicare la sua umanità, non il suo essere stato, tanto per dirne una, il primo atleta al mondo ad essere costruito in pista per i 200 metri moderni”.
Similmente ha scritto Aldo Grasso sulle pagine del Corriere della Sera “Mennea non aveva bisogno di essere «santificato», i risultati sportivi (per un atleta sono le uniche cose che contano) parlano per lui. E invece qui assistiamo a una corsa di eventi trasformati in luoghi comuni, con abuso di ralenti”.
Nella televisione di oggi, conta investire sulla verità o sulle emozioni che suscitano presunte verità?
Come rendere allora giustizia ad un campione?
Onorando lo sport e chi in esso ha creduto sacrificando tutto, dimostrando che vittorie e sconfitte sono la faccia della stessa medaglia per cui si lotta ogni giorno nella vita.Perché in fondo lo sport, l’antica disciplina che nella Storia ha unito gli uomini, fatta di rese e di scatti, si presta bene ad essere metafora di una vita goduta e vissuta.
Onorando la verità e la storia. Conta soprattutto questo. Perché forse ciò che ha fatto rabbrividire di più gli italiani davanti alla tv per due sere è stata la riproduzione dei filmati storici con le corse della Freccia del Sud e con esse la voce del mitico Paolo Rosi di fronte alle prodezze del campione italiano durante la finale olimpica dei 200 metri, a Mosca nel 1980.