Nel giorno in cui l’Italia festeggia i 70 anni di liberazione dal Nazifascismo, si rifletta sulla necessità di “resistere” oggi soprattutto all’indifferenza, alla luce dei continui episodi di violenza
Agensir – Il 25 aprile, per l’Italia, è il giorno in cui celebriamo i 70 anni della Resistenza. Quella con la “R” maiuscola, quella dei partigiani che hanno liberato il Paese dall’occupazione nazista, restituendogli attraverso storie di coraggio il profumo fragrante della libertà.
Dopo l’ultima, ennesima tragedia del Mediterraneo, con il suo carico di morti senza precedenti – molti dei quali ancora senza nome – la resistenza con la “r” minuscola sembra una parola impossibile da pronunciare. Non si può resistere a tanta brutalità dell’umano, a tanta spietatezza nei confronti di persone che hanno l’unica colpa di aver scelto tra una morte certa e una morte probabile. Dopo le minacce dell’Isis, diventa arduo immaginare una “resistenza” a chi fa della jihad un passaporto per seminare odio, violenza e distruzione proprio in nome della religione in cui si professa di credere. Dopo gli attentati in Francia, ipotizzare una “resistenza” dell’Islam moderato al terrorismo fondamentalista appare una scommessa azzardata. Dopo la sordità dell’Europa, si fa fatica a pensare ad una “resistenza” della società occidentale, che vede messo in questione il suo ordine e il totem della sicurezza, dall’avanzata sempre più massiccia delle carrette del mare. E poi c’è la “resistenza” alla crisi, la lunga crisi economica e finanziaria che attanaglia le nostre fino a ieri opulente nazioni, annoverando tra le fila della povertà famiglie solo pochi anni fa considerate di ceto medio.
Eppure, resistere si deve. Così come è un dovere trasmettere ai giovani la memoria di quello che 70 anni fa i loro nonni e bisnonni hanno fatto per impedire la barbarie e firmare ai loro nipoti un’assicurazione sulla vita, è un dovere anche cercare tutte le vie possibili perché il dialogo prevalga sull’uso della forza, la ragione sulla barbarie, la speranza su una sentenza di condanna a morte. Tra le molte storie di partigiani che in questi giorni tornano ad essere narrate, c’è quella di Mario e Lucia, 97 anni lui e 90 lei: quando i carri armati tedeschi arrivavano a Roma, loro si tenevano per mano. Lei era la partigiana più odiata da Kappler, lui era in un letto di ospedale in Piemonte, quando si marciava per la Liberazione. Il prossimo 16 agosto festeggeranno 70 anni di matrimonio, infatti si sono sposati subito dopo la Liberazione. Resistere si può, e si deve, anche nei periodi più tragici e bui. “Cos’è oggi la libertà?”. Lucia risponde, sicura: “Bisogna essere onesti e non si può vivere nel contrario delle cose”. Anche questa, direbbe Papa Francesco, è resistenza alla “globalizzazione dell’indifferenza”.