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Editoriale / Giovani in guerra

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di Grazia Biasi

 

Parigi interroga il nostro vivere quotidiano, i gesti che facciamo, lo stile che fa di noi dei cittadini liberi e coscienti e soprattutto interpella il futuro. “Chi siamo” dopo gli attacchi avvenuti al cuore dell’Europa?
Qualcosa ci ha scosso.
L’incredulità, poi la presa di coscienza, le ipotesi, infine la paura e l’incertezza del futuro. Gli attentati alla Capitale francese hanno generato tutto questo e poi una triste, quanto disorientata percezione del presente, e peggio ancora del futuro: sono dietro l’angolo? E quali timori per l’Italia? Quali rischi concreti?
Il Giubileo straordinario, che ha inizio l’8 dicembre, si carica di tensione e apprensione per il numero di persone che confluiranno su Roma, non solo in Piazza San Pietro, ma nell’intera città: al vorticoso traffico urbano si aggiungeranno i turisti di sempre e i pellegrini. Il pensiero di tutti, ma proprio di tutti, sarà lì, in un presunto luogo dove potrebbe accadere qualcosa di terribile o solo un falso allarme.
Si può vivere di ipotesi?
Si può affidare il futuro alle possibilità che una tragedia accada oppure no?
Così facendo sarà difficile rimanere saldi, in piedi e contenere la lucidità necessaria in questi momenti.
A Roma, la politica, il prefetto Gabrielli, e Mons. Galantino segretario della Cei, si dividono sulla possibilità che un attacco avvenga o meno. Dalla Chiesa vengono rassicurazioni perché in fondo quello dell’Is non è un segnale di guerra alla cristianità; mentre dal fronte della sicurezza si conferma che i rischi sono più di prima e ai terroristi interessa il…terrore. Fatte salve entrambe le posizioni, restiamo pur sempre nel campo delle ipotesi.
Il giorno dopo gli attentati di Parigi, tv e giornali hanno fatto luce su un aspetto nuovo di questa strage: nel mirino dei terroristi sembrano essere finiti i giovani (del resto l’attacco da un concerto, allo stadio, o a dei pub non può che confermarlo), ma passo successivo – e obbligatorio – è pensare che a colpire siano stati altrettanti giovani.
La guerra dei giovani contro i giovani.
Le comunità islamiche prendono le distanze, o almeno “tutelano” il Corano in cui l’odio così seminato non trova spazio alcuno; ma sempre dal mondo musulmano, vengono lievi e a volte sussurrate parole che tentano di spiegare la ribellione di un mondo (arabo) ad un altro (occidentale), che si è visto blindare, controllare, soffocare in nome del denaro, del petrolio, dei territori, del potere. La politica, quella che sogna il bene dell’umanità, non ha trovato spazio in questa frenesia di arrivismi e carrierismi incontrollati.
A queste parole (noi occidentali) forse un giorno daremo più spazio per comprendere fino in fondo la storia, l’aspetto socio-antropologico che alimenta (e maledettamente esaspera) tanto malcontento. Forse, un giorno…
Intanto alla violenza si risponde ad armi pari, anzi di più (“Siamo in guerra”, ha dichiarato il presidente francese Hollande) e pare che in nome della vendetta abbiano trovato l’intesa persino Francia, Russia e Usa: peccato che simili accordi non siano per generare la cultura della pace, piuttosto per rimediare ai mali del mondo.
Ecco…generare la cultura della pace.
Oltre le posizioni dei potenti del mondo, noi, dove ci collochiamo?
Non basta il comodo divano di casa e lo sguardo attonito di fronte all’accaduto… Qualche decisione parte anche da qui, dalle nostre mura domestiche, dalle nostre aule scolastiche, dagli spazi parrocchiali frequentati anche da bambini di colore felici di venire in oratorio.
Attingo alla riflessione di don Adriano Bianchi, direttore dell’Ufficio Comunicazioni sociali della Diocesi di Brescia e presidente dell’Acec (Associazione cattolica esercenti cinema), pubblicata dal Sir, l’agenzia di informazione religiosa: “Direi che il primo fallimento è educativo. Molti degli attentatori erano ragazzi francesi. Immigrati di seconda e terza generazione. Che dire? Non abbiamo fatto abbastanza. Non siamo stati capaci di appassionarli alla bellezza del rispetto degli altri, alla necessità di confrontarsi con la diversità. Abbiamo forse pensato che per farli diventare come noi sarebbe bastato togliere Dio dalla loro vita. Non ci hanno creduto e qualcuno li ha attratti, plagiati, traditi. Ci si sono rivoltati contro”.
Parole pesanti. Parole pensanti.
Generare, o meglio rigenerare la cultura della pace lì dove abbiamo il “potere” di farlo, e penso ai tanti ragazzi nati in Italia da genitori nati anch’essi nel nostro Paese, ma con radici profondamente islamiche. Lasciamoli “islam”, ma troviamo il coraggio di appassionarli al dialogo, alla dolcezza e alla mitezza di una vita fatta di diversità che si rispettano. Proviamo a farli sentire padroni di casa quanto noi, a parlare dopo di loro, a chiedere un contributo di civiltà anche ai nostri locali dibattiti politici o culturali. Non si tratta di tollerare chi è diverso, ma di ammettere che il mondo appartiene a tutti, senza differenze.

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