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Referendum trivelle: è molto più di un quesito

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Il voto del referendum del 17 aprile riguarda l’esito degli impianti in mare, ma non sulla costa o terraferma

referendum trivelle in adriaticoDietro i tecnicismi dell’unico quesito che gli italiani troveranno sulla scheda elettorale, si cela un dibattito che coinvolge il futuro modello di sviluppo energetico del nostro Paese: meglio continuare a sfruttare gas e petrolio, o meglio investire in energia rinnovabile?

Trivellazioni sì, trivellazioni no.  Si traduce così il senso del referendum abrogativo del prossimo 17 aprile: un quesito tecnico e nei fatti molto circoscritto, ma che chiama in causa la partita degli interessi locali e quella ancor più ampia della visione generale di sviluppo che l’Italia vuole coltivare.  Certamente si focalizzano sugli interessi locali le nove regioni che si sono alleate per chiedere il referendum, mentre per le associazioni ambientaliste nettamente contrarie alle trivellazioni la partita riguarda un possibile futuro energetico alternativo agli idrocarburi. Punta sulla conservazione della situazione chi invece si esprime per il no, pensando soprattutto alle ripercussioni sulla bolletta energetica.

A fine febbraio è nato il comitato nazionale delle associazioni “Vota Sì per fermare le trivelle” che invita i cittadini a votare per abrogare la norma introdotta con l’ultima legge di stabilità, «che permette alle attuali concessioni di estrazione e di ricerca di petrolio e gas entro le 12 miglia dalla costa di non avere più scadenze».  In realtà, sottolineano i promotori del comitato, il referendum «fa esprimere gli italiani sulle scelte energetiche strategiche che deve compiere il nostro paese, in ogni settore economico e sociale».

Decisamente per il sì anche la Focsiv (Federazione organismi cristiani servizio internazionale volontario) che in una nota afferma: «Fermare le trivelle significa avere consapevolezza che dobbiamo cambiare il sistema, non cambiare il clima. Dobbiamo agire per ridurre gli effetti del cambiamento climatico attraverso un nuovo modello di produrre e consumare energia, diminuendo sempre di più l’utilizzo di carburanti fossili sostituendoli con le energie rinnovabili e adottando stili di vita più sobri e capaci di migliorare la qualità della nostra vita. In questo modo ridurremmo anche il debito ecologico che abbiamo creato a danno dei popoli del Sud, che subiscono e soffrono sempre di più gli effetti disastrosi degli eventi climatici».  Dal canto loro gli attivisti di Ottimisti e razionali, il comitato costituito da poco a Roma contro il referendum abrogativo, sostengono che il quesito è mal posto perché riguarda la scadenza delle concessioni e quindi non si chiede di non trivellare ma di non disperdere una risorsa che già viene sfruttata e questo significa far scappare chi investe o vuole investire nel settore.

Il Veneto è una delle regioni promotrici e il presidente Luca Zaia ha sottolineato la necessità di lottare contro lo sfruttamento petrolifero dell’Adriatico, che potrebbe provocare enormi danni al nostro ambiente e all’economia turistica costiera.
Cauti gli industriali, consapevoli della necessità di usare la massima cautela a tutela dell’ambiente e dell’industria del turismo veneto, ma restii a schierarsi contro le trivellazioni temendo gravi danni a un sistema che importa il 40 per cento dell’energia necessaria. Ma per gli ambientalisti l’obiezione è facile: «Se vogliamo ridurre la bolletta energetica degli italiani – sottolinea Legambiente – è meglio sostenere l’industria nazionale delle rinnovabili, che in questi anni ha già creato oltre 100 mila posti di lavoro e fornisce quasi il 40 per cento dell’elettricità».

Le risorse del sottosuolo
Attualmente le risorse italiane verificate ammontano a 84,8 milioni di tonnellate di petrolio e 53.713 milioni di metri cubi di gas naturale. I pozzi in attività sono 886: la loro produzione contribuisce per 4,5 miliardi alla riduzione della bolletta energetica nazionale e garantisce circa 13 mila posti di lavoro.

Sono nove i consigli regionali che hanno proposto i quesiti referendari: Basilicata (capofila), Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto. In origine i quesiti erano sei e cinque sono stati superati dai provvedimenti compresi nell’ultima legge di stabilità, ma almeno altri due quesiti dello stesso referendum potrebbero essere riammessi dalla Corte costituzionale che a breve si pronuncerà nel merito dei ricorsi presentati dalle regioni. Per risparmiare sulle spese elettorali – circa 300 milioni – molti hanno chiesto di spostare il voto a giugno, quando in diverse città si terranno le elezioni amministrative, ma la legge non prevede che le elezioni possano svolgersi in concomitanza con un referendum. L’accorpamento fu possibile nel 2009 perché venne emanata una legge ad hoc.

Donatella Gasperi, Agensir

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