Quale “Terra di Lavoro”? Gianluca Martini, docente presso il Dipartimento di Meccanica Meccatronica ed Energia dell’Industriale Giovanni Caso ci consegna una riflessione, ricordandoci il valore di studenti come Francesco Iasimone, diplomato nel 2015 e di recente selezionato e assunto dalla Ducati
«L’educazione è l’arma più potente che si può usare per cambiare il mondo», diceva Nelson Mandela. Noi, vorremmo accontentarci di cambiare l’Italia: un Paese che sta scivolando verso il declino. Una prova fra tante ? Il 2015 è stato l’anno nero delle nascite. Mai, dall’unità del Paese, si è registrato un tasso di natalità così basso, neanche durante la prima guerra mondiale. Un altro dato? Sempre nel 2015, sono emigrati 65.000 giovani verso Regno Unito, Germania e Svizzera. Perché? Perché le giovani generazioni hanno perso la fiducia nell’avvenire. L’alta percentuale di disoccupazione inizia a dare i suoi effetti sul sistema Paese. E se manca il contributo giovanile alla crescita socio-economica, il sistema previdenziale rischia di collassare, e il Paese di avvitarsi nella pericolosa spirale dell’insostenibilità del debito. Questa è la realtà.
Se il Belpaese registra uno dei debiti pubblici più alti del mondo, così non si può dire, del suo debito privato. Secondo i dati Bankitalia, nel 2013, la ricchezza delle famiglie italiane era pari a 8728 miliardi di euro, quattro volte il debito pubblico, che ammontava, sempre nel 2013, a circa 2100 miliardi di euro. Strano ma vero, l’Italia è uno dei Paesi più ricchi d’Europa (più della Germania), anche se va detto che il 30% della sua ricchezza è in mano al 5% della popolazione.
Ma allora, se non è un problema di soldi, perché l’Italia non riesce a cambiare?
Il problema è culturale. E qui ritorniamo alla frase di Nelson Mandela.
Siamo noi il maggiore ostacolo al nostro sviluppo. C’è una sorta di egoismo generazionale che impedisce ai giovani di trovare i loro spazi. Questo egoismo è stato alimentato, storicamente, da un atavico individualismo e dall’idea che c’è uno Stato che pensa a tutto, anche alla nostra vita. Questa mentalità assistenzialista, insediatasi a partire dalla fine degli anni’60, ha aumentato i privilegi del pubblico impiego, rispetto a quello privato. Questo tarlo si è insediato così profondamente nel gene italiano che ancora oggi, con i vari non laureati che fanno fortuna nel mondo, i giovani italiani si ritrovano numerosi in fila per un posto nel settore pubblico, la panacea di tutti i mali, l’unica soluzione in grado di garantire un futuro economicamente stabile.
Il problema non sono i giovani in fila, ma il fatto che non gli sia stata data alternativa.
Per troppo tempo la società italiana si è crogiolata nei privilegi e nelle certezze. Si è pensato, così, ad aumentare le occasioni di profitto più che gli investimenti nelle generazioni future. L’assistenzialismo statalista ha poi deresponsabilizzato generazioni d’insegnanti e di pubblici dipendenti. Le università, diventate spesso dei poltronifici, continuano ad essere distaccate dal tessuto economico-imprenditoriale del Paese e a sfornare recipienti di nozioni. La responsabilità è di quelle classi dirigenti che non hanno voluto cambiare il corso delle cose e di quelle generazioni di privilegiati e di furbi che hanno pensato più alla loro sopravvivenza che al bene comune.
Allora è arrivato il momento di uscire da questo torpore nefasto ed iniettarci una buona dose di dinamica anglosassonicità. Uscire dallo schema del privilegio sociale o di categoria, l’unico che garantisce la raccomandazione per il posto giusto, al momento giusto. Uscire dallo schema che lo Stato ci tuteli ad oltranza. Uscire dallo schema ‘senza laurea, non c’è futuro’, uscire dallo schema delle furbizie, dal pesce piccolo a quello grande e soprattutto, investire nel capitale umano e nella formazione delle giovani generazioni.
Dato che il trapianto genetico non è possibile, rimettiamo in circolo questa ricchezza e investiamo tutto ciò che abbiamo, dall’enorme capitale infruttato delle nostre banche, all’inventiva delle nostre imprese, nell’educazione dei giovani. Ad avere un senso di appartenenza al proprio Paese e alla propria storia, un’appartenenza alla comunità, cui non devono arrecare danno con mille furbizie. Educando al senso civico, al rispetto delle cose comuni e all’ambiente. Formando alla dignità e alla responsabilità del proprio lavoro, come servizio alla collettività.
La scuola riveste un ruolo fondamentale, il docente deve sentire fondamentale la propria missione e questo a prescindere dalle circostanze ambientali.
Preparando alla conoscenza delle lingue, alla curiosità delle culture diverse, all’imprenditorialità e alla competitività intellettiva che questo mondo globalizzato ci impone.
Se faremo questo sforzo di cambiamento, daremo finalmente fiducia ai giovani e salveremo il Paese dal baratro