a cura di Don Andrea De Vico
Anno C – XVII per Annum (Lc 11, 1-13)
Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”
L’esempio di Gesù fa nascere nei discepoli il desiderio di pregare. Anche per noi, non sarebbe male se la nostra preghiera assomigliasse a quella di Gesù. Nel “Padre nostro” ritroviamo i pensieri più cari, le idee più ripetute e i temi più urgenti della sua predicazione: gli interessi del Regno! In questa piccola preghiera, “senza spreco di parole”, troviamo il riassunto di tutto il Vangelo.
Fin dai tempi del catechismo siamo portati a pensare che Gesù, con il “Padre nostro”, abbia inventato una formula fissa da tramandare tale e quale l’abbiamo imparata. Altri restano interdetti quando si rendono conto che il “Padre nostro” di Luca (che abbiamo letto oggi) rappresenta una variante del “Padre nostro” di Matteo (quella che conosciamo bene). Del resto, quando Luca scrisse il suo Vangelo, nella primitiva comunità cristiana non esisteva una formula fissa di preghiera.Gesù, con questo “canovaccio” di preghiera, non intendeva trasmettere delle “parole precise” da dire, ma ha voluto indicare l’ “atteggiamento” con cui rivolgerci a Dio. Per Gesù infatti non sono le parole che contano, ma l’atteggiamento. Lui dice che non dobbiamo usare le parole alla maniera dei pagani: “dammi questo, dammi quello”. Dio già sa di che cosa abbiamo bisogno, ce lo da ancor prima che glielo chiediamo, e non serve andarglielo a dire.
Tantomeno dobbiamo usare le parole alla maniera dei maghi e fattucchieri, che associano l’efficacia dei loro artifici all’esattezza delle formule che pronunciano. Per esempio, è poco probabile che le preghiere per togliere i malocchi siano delle vere preghiere. Più che altro potrebbe trattarsi di una perversione del rapporto con Dio, di un tentativo di manipolarlo. Meglio tenersi il malocchio e aspettare che passi. La preghiera cristiana sarà tanto più vera, quanto più si avvicina al suo modello. La preghiera del discepolo deve avere lo stesso tono e la stessa confidenza di Gesù, che si rivolge a Dio chiamandolo: “Padre!”
Nel testo del “Padre nostro” c’è un’altra parola che fa problema. La vecchia traduzione dice: “Non ci indurre in tentazione”. Possibile che Dio possa“indurci” in tentazione? Che significa? Nel nostro linguaggio corrente, quando parliamo di “tentazione”, subito pensiamo all’azione del diavolo e alle conseguenze dell’inferno, e per scansare la difficoltà elaboriamo dei contorsionismi verbali dicendo che Dio “non induce”, ma “permette” la tentazione.
In realtà, il vero problema non è questo. In Luca la “tentazione” ha tre significati: quella di Gesù nel deserto (e qui il demonio ci sta bene), poi c’è la tentazione messianica (quella che confonde la salvezza religiosa con la liberazione politica), infine ci sono le tentazioni (le prove storiche) che la Chiesa affronta in un mondo ostile. E’ chiaro che Luca sta pensando alle “tentazioni” della Chiesa, alle opposizioni che la primitiva comunità sta sperimentando da parte degli avversari.
Gesù stesso, nell’ultima cena, ha pregato per i suoi discepoli perché non soccombano di fronte al mondo. Il buon discepolo non deve presumere di fare da sé, altrimenti perderà la sua battaglia. Ci vuole un aiuto, e questo non può che venire dall’alto. Per questo il discepolo, più esattamente, in linea con la nuova traduzione, prega così: “non abbandonarci alla tentazione”. Non si tratta di evitare la lotta, ma di ricevere la forza per superarla.