A cura di don Andrea De Vico
Anno C – XXIII per Annum (Lc 14, 25-33)
“Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo!”
Il tema che apre il brano è chiaro: si tratta delle condizioni necessarie per la sequela di Cristo, espresse con una radicalità impensabile. Nessuno aveva mai parlato in questi termini prima di lui, e nessuno si è mai azzardato a chiedere tanto, neanche tra i tiranni o i dittatori. Al massimo c’è stato un tale Luigi XIV (cosiddetto “re Sole”) che – sembra – abbia affermato di essere lo Stato in persona: “l’État c’est moi”. Se ne dedusse il concetto che il potere del re non avesse bisogno di una delega superiore (fosse pure da parte di Dio). Si vide anche l’utilità di lasciar credere ai sudditi la possibilità che vi fosse un’ “investitura divina”. Quel che Luigino diceva di sé, oggi lo dice la Laicità alla francese. Sono cambiati i soggetti, ma l’atteggiamento è lo stesso. Si tratta di un abuso del verbo “essere” che si è perpetrato nei vari “je suis”, da De Gaulle (“je suis la France”) alle diverse manifestazioni pro-Charlie Hebdo e simili. E quando c’è un abuso, c’è anche un interesse.
Nel nostro brano, un uomo che parla così, al punto da chiedere di essere amato più di tutti e più di ogni cosa, o è un mitomane, o è ciò che dice di essere. Gesù chiede a chi lo segue di rompere con i legami familiari, persino con sé stesso e i propri progetti. Il bello è che di fatto intere generazioni di uomini lo hanno seguito, mentre tutti i Luigi e i Carli laicamente scorretti di questo mondo son dovuti trapassare con tutte le loro magnifiche pretese già nel cuore dei loro eredi. Non che Cristo entri in competizione con gli altri amori, o che li voglia annullare, tutt’altro! L’amore di Cristo non li esclude ma li ordina, dice cosa vale di più e cosa vale di meno. Il motivo fondamentale è la libertà: liberi dagli affetti, liberi dai beni, liberi persino da sé stessi. E’ così che si fanno affari per il Regno di Dio: avendo libero il cuore! Un “je suis” che viene integrato da tutte le altre voci del presente indicativo del verbo essere: “tu es”, “il est” “nous sommes” “vous ȇtes” “il sont”!
Il brano termina con le mini-parabole della torre e del re: bisogna riflettere bene prima di buttarsi in un’impresa, in questo caso la conquista del Regno. Negli anni novanta, per esempio, mente spontanea, mi ero messo in testa di fare il “padre spirituale” dei giovani, senza accorgermi che questo mio desiderio in realtà era dettato da altri fattori di tipo emotivo. Si trattò di un discorso sincero, ma un po’ maldestro e primitivo: mi ero avventurato in un campo minato. In seguito capii l’errore di fondo di quegli anni, quello di una “guida arbitraria, improvvisata, che ha inseguito un sogno arbitrario e intuitivo, privo di memoria e radicamento nella storia”. Oggi, quando sento dire che dobbiamo seguire i nostri sogni, mi viene a mente questa pagina di Vangelo. Sognare è una gran bella cosa, c’è tutta un’industria che ci aiuta a sognare, ma quando si tratta di decidere per il Regno ti devi fermare, pensare, valutare, riflettere, soppesare. L’invito di Gesù è incredibilmente attuale. Il cristiano non può mettere la sua fede sotto vuoto, in una nicchia ben nascosta tra gli altri altari più importanti rappresentati dal culto della famiglia, del lavoro, del guadagno. Poi viene la politica, il divertimento, il pallone, la bicicletta, la caccia, la pesca e mille altre cose ancora, tutte cose che fanno sognare e che sono più urgenti del Regno di Dio:
“Adesso non ho tempo, devo andare in bicicletta / Tanto Dio aspetta / Lavoro giorno e notte, mi devo riposare / Dio può aspettare / Io devo andare a scuola, ho tanto da studiare / Poi c’è la palestra, ci devo proprio andare / Dio può aspettare / Godiamoci la vita, ancora non c’è fretta / Tanto Dio aspetta / Il tempo di fumare un’altra sigaretta / Tanto Dio aspetta / Il tempo di pensare lo devo pur avere / Dio può aspettare / Ma il tempo se ne va e di noi non ha pietà / Presto il conto chiederà della nostra libertà” (Marcello Marocchi, “Caino chi è”, Ep 1987).