La morte di Tiziana Cantone, suicidatasi perché alcuni motori di ricerca aveva diffuso in rete un suo video hard, fa riflettere sulla “strana comunità” creata dal web
di Marco Testi
La vicenda della ragazza napoletana suicidatasi perché un suo filmato hard era stato diffuso da alcuni motori di ricerca ci deve far riflettere. Aveva ragione Umberto Eco, internet può diventare il dominio degli imbecilli, ma l’autore del “Nome della rosa” non poteva sapere che l’apparire-apparenza avrebbe mietuto vittime, ancora vittime, perché la ragazza non è certamente la prima a diventare prigioniera e poi vittima terminale di una falsa apertura al mondo.
Si può morire per essere sbattuti in rete? La vicenda di Tiziana, la ragazza napoletana suicidatosi perché un suo filmato hard era stato diffuso da alcuni motori di ricerca ci deve far riflettere. Aveva ragione Umberto Eco, internet può diventare il dominio degli imbecilli, ma l’autore del “Nome della rosa” non poteva sapere che l’apparire-apparenza avrebbe mietuto vittime, ancora vittime, perché la ragazza non è certamente la prima a diventare prigioniera e poi vittima terminale di una falsa apertura al mondo.
Il web sta creando una ben strana comunità, fatta esattamente di ciò contro cui nei secoli sono state combattute battaglie feroci e immolate tante persone: l’esposizione dell’agnello sacrificale, del brutto da additare agli amici e far girare, per prendere in giro invece di averne pietà, dei cazzotti tirati in tre in una piazza di notte ad un ragazzo solo, della braciola ben cotta che si sta mangiando al ristorante, e sai che opera d’arte, e sai che comunicazione, soprattutto per chi non ha non si dica una bistecca, ma un bel nulla da mangiare. Questa concezione della comunicazione sta creando un’idea di donna contro la quale le donne, e non solo le donne, si sono battute per secoli, un’idea fatta di carne fotografata, senz’anima, di gambe, di seni, di visi truccati e allusivi di chissà quali prospettive di approccio.
La violenza contro le donne ha anche questa base: un oggetto, un possesso, una cosa.
E una cosa non mi può lasciare, non sia mai, chissà cosa penseranno gli amici di me. Una certa idea di net, che fa arricchire pochi e soprattutto permette loro di sapere i nostri gusti, i nostri problemi, quando guadagniamo, quanti figli abbiamo e che negozi frequentiamo, non ha anima. Una foto un tempo aveva anima, come un disegno, come una lettera o un romanzo. Oggi di fronte alla bellezza di una cascata improvvisamente apparsa dopo una lunga camminata in montagna facciamo tutto fuorché sederci e contemplarla, attivando milioni di neuroni e sinapsi positive. No, tiriamo fuori il cellulare e ci facciamo il famigerato selfie. Il momento è passato, non vedremo più quel panorama che per questo è, e sarà, unico, per la sua circolare e divina irripetibilità.
Stiamo perdendo il mondo, la sua sacralità, la sua unicità, riducendolo a immagini di secondo grado, che non saranno mai l’attimo, la bellezza del qui e dell’ora.
Stiamo creando cose quasi eterne, purtroppo, come la plastica, e pensa tu che bella immortalità, inconsapevolmente e colpevolmente parodia di quella divina, mentre la vita tutto è fuorché una cosa. Le cose possono essere gettate una volta servite. Ti ho guardato sul net, bene, sì, molto bella, grazie, avanti un’altra immagine. Un’altra vita ridotta ad un minuto –quello della foto o del filmato- che prenderà il posto di tutta la tua vita, che sarà te per sempre. La condanna dei motori di ricerca non restituisce una vita.
Agensir