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La gratitudine del Samaritano. Il commento al Vangelo del 9 ottobre 2016

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A cura di don Andrea De Vico
Anno C – XXVIII per Annum (Lc 17, 11-19)

“Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo”

La liturgia di questa domenica presenta due episodi di guarigione o “purificazione”. Naaman, dignitario della Siria pagana, viene guarito da un profeta del Dio di Israele, e un samaritano, straniero pure lui, uno che fa parte di una razza odiata, viene guarito da Gesù. I lebbrosi erano portatori di una malattia che veniva associata a uno stato di peccato, a una maledizione. Per motivi igienici, i lebbrosi considerati degli “impuri” da evitare, venivano messi ai margini della società. In uno stato teocratico come quello d’Israele il sacerdote fungeva anche da ufficiale d’igiene e di pubblica sanità: aveva il compito di constatare l’eventuale avvenuta guarigione e dichiarare il soggetto “puro”, “mondo”, riammettendolo nel consorzio degli umani. Per questo motivo Gesù, sanando i dieci lebbrosi, li invia dai sacerdoti per la certificazione, come da protocollo.

Tuttavia, dei dieci, uno solo, vedendosi guarito, torna indietro a ringraziare: era il samaritano. Gli altri nove sono giudei, ma continuano per la loro via, sono impazienti di avere il certificato, non mostrano segni di riconoscenza verso colui che li ha guariti. Il punto forte della narrazione è questo: un samaritano di fede e di razza inferiore, bastarda, fa sfigurare i nobili e pii giudei. Un motivo che ricorre spesso nel Vangelo: in un altro episodio Gesù si era meravigliato per la fede di un pagano, lì dove in Israele la si sarebbe cercata invano; un’altra volta, Gesù presenta un extra-comunitario come esempio di carità, non il sacerdote del Tempio o il levita del’Ufficio Comunale.

Di questi dieci ex-lebbrosi tutti hanno pregato, tutti hanno avuto fiducia, tutti hanno obbedito andando dal sacerdote, tutti sono stati guariti, ma uno solo è tornato a ringraziare: “nessuno è tornato indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?” Un “malcredente” che viene indicato da Gesù come modello di fede e di amore. Chi lo avrebbe detto? Sembra che la fede abbia la caratteristica di travalicare i confini della razza e della religione. Può accadere che l’arabo e il marocchino possano esprimere una fede – o una buona opera – più vera della mia, che sono battezzato, cristiano, e mi sento a posto con Dio e con i miei doveri religiosi.

E’ la fede che guarisce. In gergo medico, si dice il principio della guarigione è interno alla malattia stessa. Non l’acqua del fiume (che pure era necessaria come segno: il profeta ingiunge a Naaman si immergersi sette volte nel Giordano), e neppure il pellegrinaggio al santuario, sono in grado di guarire. L’acqua non salva, il miracolo non salva: la fede si. Nove sono detti “guariti”, solo il decimo si è “salvato”. A che serve sentirsi miracolati a Pietrelcina, se poi non mi salvo in Paradiso? Il miracolo è ambiguo: quando è accolto con gioia e gratitudine, suscita la fede, ma quando è richiesto, preteso, contestato, il miracolo diventa il principale ostacolo alla fede: “Quale segno fai, perché possiamo crederti?” (Gv 6, 30) Questo vale anche per quei testoni di atei che confondono la fede con l’orgasmo religioso dei devoti o il furore omicida dei guerrieri.

Da un lato c’è gente che cerca miracoli, corre appresso ai fatti straordinari che avvengono ora qui ora lì, fermandosi a livello di curiosità, con atteggiamento a-critico e credulone. Dall’altro lato c’è gente che guarda ai fenomeni religiosi con fastidio, scetticismo, aria di superiorità. Tra le due cose, quella che fa la differenza è la fede che si esprime nella gratitudine. Il samaritano si è buttato ai piedi di Gesù: lui solo, straniero, ha capito qualcosa del suo mistero!

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