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Il fariseo e il pubblicano. Commento al vangelo di domenica 23 ottobre

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preghiera

A cura di don Andrea De Vico
Anno C – XXX per Annum (Lc 18, 9-14)

“Gesù disse questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri … Chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”

Ci troviamo di fronte a due modi diversi di mettersi di fronte a Dio, quindi di fronte al prossimo. C’è un fariseo molto devoto che, nella sua preghiera, ritto in piedi, sul piedistallo del proprio io, presume di sé, è sicuro della sua giustizia (leggi: “onestà”), ma è arido e spietato nei confronti di un altro. E c’è un pubblicano, un esattore delle tasse che per motivi di profitto fa pure lo strozzino, in fondo al tempio, sprofondato in sé stesso, non osa neanche alzare gli occhi al cielo.

I farisei si distinguevano per la loro osservanza religiosa e la loro condotta morale. Il fariseo  ha molto spirito di sacrificio, digiuna più di quanto prevede la legge. In questo è ammirevole, non gliene si può fare un torto. Il suo sbaglio consiste nel suo senso della giustizia: pensa di “stare a posto”, si ritiene in credito davanti a Dio, come se dicesse: “io ho fatto il mio, ora sei tu che devi dare a me!”  Questo fariseo, da Dio, non attende misericordia, ma il premio che gli spetta. Lo tratta come con un datore di lavoro, e guarda al prossimo facendo paragoni e differenze: “ti ringrazio, Signore, per avermi fatto così … invece, guarda quello lì, non dovrebbe nemmeno entrare …”

E’ chiaro che il fariseo non prega Dio, non gli chiede niente, ma si concentra su di sé e si mette a confronto con un altro, giudicandolo severamente. Forte della sua giustizia, della sua onestà, del suo senso etico, il fariseo non sente il bisogno di cambiare, e questo diventa addirittura la ragione della sua preghiera. Sbagliando preghiera, il fariseo sbaglia anche la sua morale. Ha stabilito per conto suo quali sono le cose intorno alle quali si decide che è giusto e chi è ingiusto, chi è buono e chi è cattivo, un po’ come facciamo noi quando diciamo: “non ho rubato, non ho ammazzato, non ho fatto male a nessuno, prego la mattina e la sera, e quando posso fare il bene lo faccio”. Si è ritagliato la sua morale come un abito su misura. Si è fatto l’autoritratto, dimenticando di mettere nel quadro l’amore al prossimo. Ha espresso un suo ideale di perfezione, grazie al quale egli può qualificare indiscriminatamente gli altri come ladri, ingiusti, adulteri, come quello lì …

Il pubblicano sale al tempio con un atteggiamento molto diverso. Si sente un uomo solo davanti a Dio, non ha bisogno di prendere il metro per misurarsi con gli altri. Si ferma a distanza, non alza gli occhi, batte sinceramente il petto, dice la verità su di sé: “Signore, sono al soldo dei romani, mi sono messo al servizio dell’esercito di occupazione, esigo dai miei connazionali dei tributi per conto di Roma, realizzo dei profitti personali, sono uno strozzino”. Lui è proprio come si descrive, è consapevole dei suoi torti, vuole cambiare ma non sa come, è diventato lui stesso prigioniero della macchina che ha costruito per rubare soldi, si mette davanti a Dio con la sola coscienza del suo peccato, riconosce di essere solo un povero peccatore. Ed è proprio questo che lo giustifica, lo cambia, lo solleva, lo salva!

Questi due personaggi si sono presentati al tempio per una breve preghiera. Appartengono a due categorie religiose e sociali diverse. Siccome il fariseo non chiede nulla, Dio non gli da nulla. Non ha chiesto giustizia, e non ne esce giustificato, anzi, la sua preghiera è servita solo a peggiorare la sua posizione. L’altro invece, dicendo la verità su di sé, ha guadagnato molti punti a suo favore.

La conclusione è semplice. Vuoi che la tua preghiera sia vera? Entra nella tua coscienza e vedi bene chi sei. E dopo che hai visto chi sei, riceverai la tua giustifica, senza bisogno di guardare gli altri.

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