Il rapporto 2016 dello Svimez, il più autorevole osservatorio socio-economico sul nostro Mezzogiorno, presenta molti dati positivi, a cominciare da quell’aumento del Pil nel 2015 che inverte la tendenza dopo sette anni negativi e supera (1% contro 0,7) anche il dato nazionale.
Un risultato in cui convergono un’annata agraria particolarmente favorevole, una crescita del turismo legata soprattutto alle paure per la situazione geopolitica di altre destinazioni e l’effetto della chiusura del ciclo di programmazione dei fondi europei, che ha portato ad un’accelerazione della spesa pubblica per evitarne la restituzione. Riprendono a crescere anchei consumi, gli investimenti, l’occupazione. Ma si tratta di incrementi molto modesti, poco sopra o sotto l’uno per cento. Il punto è proprio questo: giusto segnalare le positività, quando finalmente ci sono, ma attenzione all’illusione ottica provocata dalle variazioni statistiche.
Lo Svimez lo dice chiaramente: per colmare il divario che si è creato con la lunga crisi ci vuole ben altro. Anche perché non va dimenticata la crisi che precedeva “la crisi”, come è stato detto in sede di presentazione del rapporto, giovedì 10 novembre, a Roma. Le regioni meridionali, in altre parole, partivano già da una situazione decisamente svantaggiata, su cui “la crisi” si è abbattuta provocando danni sociali enormi.
Segnali positivi e dati impressionanti. Questo spiega perché nel rapporto, accanto ai segnali positivi, compaiano dati impressionanti: nel 2015 dieci meridionali su cento risultavano in condizioni di povertà assoluta (contro i sei del Centro-Nord) e nelle regioni del Sud il rischio di cadere in questa condizione era triplo rispetto al resto del Paese, sfiorando il 40% nelle due realtà più grandi, la Sicilia e la Campania.
Se dal rischio povertà si passa a fotografare la situazione in base al prodotto pro-capite, nel 2015 in coda c’era la Calabria con quasi 21 mila euro. Per fare un confronto, il Trentino Alto Adige superava i 37mila. Ma c’è Sud e Sud. Se si valuta infatti la crescita del Pil pro-capite, l’andamento registra differenze molto marcate: Basilicata +5,9%, Molise +3,4%, Abruzzo +2,7%, Sicilia +1,7% Calabria +1,4%, Sardegna +0,5%, Puglia +0,4% , Campania +0,3%.
Emorragia di giovani. Nel Mezzogiorno, che pure ha avuto storicamente una dinamica demografica migliore del resto del Paese, anche la popolazione è scesa di 62mila unità (sarebbero state 101mila senza l’apporto degli stranieri) e il numero dei nati ha toccato il livello più basso dall’unità d’Italia: 170mila. Il saldo migratorio negativo è di 653mila unità, fra cui ben 478mila giovani e 133mila laureati. Questa emorragia di giovani avviene nonostante il dato sull’occupazione giovanile al Sud sia uno dei più positivi del rapporto, uno dei pochi che si stacca dallo zerovirgola: per il 2016 lo Svimez prevede un +3,9%, rispetto a una media nazionale del +2,8.
La spiegazione di questa apparente contraddizione è duplice. Da un lato la nuova occupazione che si è creata è costituita soprattutto da part time e da professioni poco qualificate, con un uso massiccio e improprio dei voucher, i “buoni lavoro”. Dall’altro, pesa soprattutto quel divario scavato da sette anni di crisi che una ripresa lenta e modesta non riesce neanche lontanamente a colmare.
L’unica delle regioni meridionali che è riuscita a tornare a livelli occupazionali vicini a quelli del 2008 è la Basilicata. E a quella data il problema del lavoro al Sud era già un’emergenza.
Fare di più. Sul piano delle terapie, lo Svimez saluta con favore il ripristino per il 2017 della decontribuzione totale per i neo-assunti nel Meridione; l’introduzione di una prima misura nazionale di contrasto alla povertà; il Masterplan e i conseguenti Patti per il Sud tra governo e regioni, che consentono di spendere e di spendere meglio i fondi già esistenti. Ma non basta. Troppo vasto è il terreno da recuperare e troppo lunghi i tempi di una ripresa che in certi casi riesce a essere percepita soltanto attraverso le statistiche. Il rapporto lo afferma esplicitamente: occorrono più risorse e occorre anche una nuova politica industriale per il rilancio del Mezzogiorno.
Lo Svimez torna a usare questa espressione – politica industriale – che nell’era della globalizzazione liberista e delle politiche di austerità finanziaria è diventata quasi una parolaccia, uno spettro da esorcizzare evocando il rischio dell’assistenzialismo, soprattutto quando si parla dell’Italia. Così che, proprio dall’inizio della grande crisi, nel nostro Paese la politica industriale è stata penalizzata in misura crescente rispetto agli altri partner europei. Al punto che oggi gli aiuti di Stato alle imprese incidono sul Pil per lo 0,30% in confronto allo 0,67 della media dell’Ue.