I rintocchi mattutini del campanone (o il cambio della guardia).
Tardo Medioevo. E’ l’alba di un nuovo giorno nel castello del Conte di Alife Rainulfo Drengot. Circondato da quattro torri, possenti mura e un profondo fossato, la roccaforte della nobiltà alifana si erge imponente in un angolo della fortezza romana, proteggendolo dalle incursioni esterne. Il canto del gallo preannuncia alle sentinelle, appostate sulle torri, il cambio della guardia. Il sergente, a capo delle guardie del castello, comincia la sua ispezione: il cortile, il portone, il granaio, la legnaia, la dispensa, la cucina e la cantina. Tutto è tranquillo.
All’improvviso si odono i rintocchi del campanone del duomo: il sergente, indossato l’elmo e cinta la spada, ordina che la bandiera sia issata, le trombe comincino a squillare e il ponte levatoio abbassato. Poi, la porta esterna a guardia del castello, cigolando sotto il suo peso, si apre e fa passare il drappello di soldati che va a rilevare gli uomini alle quattro porte e alle torri del paese per il cambio della guardia. La prima fermata è Porta S. Giovanni dove quattro armigeri prendono posto due sulle torri laterali, alte e merlate, e due ai piedi della porta.
Traffico in uscita, traffico in entrata: la città prende vita.
Davanti alla porta numerosi personaggi attendono di uscire dal paese: il porcaro, avvolto nel suo mantello nero, seguito da una ciurma di cani ringhiosi, pronto a condurre i maiali dei contadini al pascolo nelle selve alifane; preti e perpetue, padroni e donne di paese s’incamminano verso le chiese per adempiere alle funzioni religiose; ortolani, con vanga e zappa in spalla, raggiungono in fretta orti e canapine; contadini e pastori, dopo un’ora di cammino, arrivano con i loro armenti nelle aride campagne di S. Angelo; boscaioli, cavallari, carbonai e mulattieri, compiono il tragitto più lungo, giungendo alla testa di carovane di equini sulle vette del Matese o nella fitta selva alifana.
Terminata la processione in uscita, finalmente viene consentito l’ingresso alla piccola folla che attende con impazienza: sicari, birri e corrieri che non temono di viaggiare di notte, chierici itineranti e frati mendicanti lontani dai conventi, pellegrini e lebbrosi preannunciati dal suono del campanello attaccato al bastone. Più tardi, a giorno avanzato, arriveranno prelati in visita al Vescovo, mercanti e macellai e le comitive di meretrici con i loro abiti dai colori vivaci. Il drappello di soldati ripete l’operazione a Porta Fiume, da dove escono i battellieri diretti alla scafa sul Volturno, i raccoglitori di giunchi per farne cesti e panieri, i cercatori di rane, lumache e verdure selvatiche e da dove entrano caccia-uccelli e pescatori con il bottino del giorno.
Da Porta Roma, dove il manipolo si ferma nuovamente, entrano in paese i merciai di Venafro e Teano ed i langellari di S. Angelo d’Alife, dove si producono ceramiche artigiane. Infine, la compagnia giunge alla Porta di S. Maria degli Angeli che guarda in direzione del Matese e da dove entrano carboni e legna, agnelli e bestiame da macello, lana e canapa, farina macinata, carni e pelli di lepre e di cervo.
L’udienza del Conte.
Terminata la funzione del drappello, il sergente fa ritorno al castello, dove può slacciarsi l’elmo e posare la spada presso il corpo di guardia, legare i mastini, disserrare le porte di cucina e stalla e salire a fare rapporto al Conte. Nel frattempo il cortile si popola: gli stallieri governano i cavalli, le serve preparano la colazione per birri e signori, i famigli trasportano la legna e tirano l’acqua dalla cisterna. I rintocchi della campana annunciano la messa nella cappella di corte raggiunta in gran fretta dal Conte e la sua famiglia, l’erario, il capitano, il capocuoco e i servitori.
Dopo la cerimonia religiosa, la contessa ritorna nelle sue stanze dove raccomanda alle serve di preparare il pranzo per il Conte e per gli ospiti e di non dimenticare di tessere e filare panni per gli occupanti del Palazzo. Il Conte, intanto, seduto su un trono in una grande sala che difficilmente riesce ad essere riscaldata, rabbrividisce e si prepara all’udienza stabilita proprio per quella mattina. Riceve numerose visite: l’erario, suo amministratore, rende i conti; il capitano riferisce di questioni di giustizia; l’università avanza lamentele sulle segrete del castello; un messo inviato dal Re Ruggero II annunzia una cerimonia di investitura cavalleresca e chiede la sovvenzione ai suoi vassalli; alcuni massari accusati dall’erario vengono a discolparsi; il Vicario porge gli ossequi del Vescovo e chiede le travi promesse per la cattedrale; i vassalli del monastero di S. Maria in Cingla non vogliono osservare gli obblighi e la Badessa chiede l’intervento del braccio secolare.
Nobili consiglieri, alti prelati e dottori in diritto sono pronti a dispensare soluzioni per dirimere le questioni che attanagliano il Conte che preferirebbe di gran lunga essere a caccia o perfino in battaglia.
Il pranzo.
A mezzogiorno un profumo sale dal cortile: pane bianco appena sfornato, minestra, arrosto, verdure insaporite da lardo e spezie, dolci di miele e noci, vino generoso delle uve di S. Angelo imbandiranno la tavola del Conte e dei suoi ospiti illustri. Alla mensa parteciperanno anche parenti e parassiti, menestrelli e sicari, gentiluomini affidati in custodia al Conte dal re in persona, suo acerrimo nemico. I servi, pieni di minestra e pane nero, spolperanno le ossa della selvaggina prima dei mastini. Dopo pranzo il Conte farà un giro per il Castello per verificare i lavori da fare per rimediare ai danni del terremoto.
L’imbrunire: il castello chiude le porte.
All’imbrunire dalla torre maestra del castello il Conte ode i canti delle fabbricatrici dei panni di lana, il martellare dei fabbri e i rintocchi dei campanili che chiamano al Vespro. Alife è immersa nella luce del sole al tramonto, si profilano lunghe ombre di palazzi e di torri, i muratori scendono dalle impalcature, i tavernieri accendono i lumi, speziali e notari si dirigono alla cattedrale per la funzione. Anche il Conte e la sua famiglia scendono alla cappella. Il porcaro rientra con i maiali che al terzo suono della sua tromba schizzano per le strade verso casa dove li attendono i padroni.
Intanto nel castello il vecchio sergente dopo la cena indossa l’elmo e cinge la spada, fa rullare i tamburi e issare la bandiera, infine monta la guardia di notte e il drappello rientra. Le porte sono serrate e il ponte levatoio si chiude lentamente su se stesso. Dalle stanze della contessa si ode il suono di un’arpa, mentre dagli alloggi dei servi si sentono schiamazzi e risate, poi orazioni. Al fioco lume i soldati bevono vino e giocano a morra, il sergente davanti al fuoco sogna la gioventù e le battaglie. Al terzo rintocco del campanone, che annuncia il coprifuoco, il castello già dorme. Le sentinelle, tramite il passaparola, si rassicurano a vicenda e i residenti possono riposare tranquilli nelle loro cuccette. Un’altra giornata è trascorsa. Domani sarà l’alba di un nuovo giorno ad Alife.
(fonte: Vita quotidiana nel Castello di Alife, Domenico Caiazza)