E’ sempre triste guardare con sconcerto e remissione la cupa realtà del suicidio. Ancor più se si conosceva la persona che ha deciso di mettere in pratica questo gesto estremo.
Conoscevo Giuseppe e ho avuto modo di riconoscere in lui la generosità, la dolcezza e la simpatia. Ma si percepiva, seppur in modo lieve, la sua fragilità.
Tutti siamo fragili, tutti dovremmo in verità entrare in contatto con la nostra fragilità, con le nostre paure, il nostro profilo misterioso. E quando questo succede, e non è raro che accada, spesso si realizza una sorpresa, un cambiamento di prospettiva, una nuova visione di se stessi e del mondo circostante. Si deve esser forti di fronte alle proprie fragilità, riconoscerle e farci amicizia. Purtroppo toccare la propria fragilità specie se non condivisa può far davvero molto male.
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La reazione più umana di fronte al suicidio è il silenzio, silenzio che significa rispetto, silenzio che diventa sinonimo di astensione dal giudizio, perché di fronte alla morte, specie quella autoindotta, deve esserci il Silenzio. Perché parlare ora serve a poco se prima nessuno ha ascoltato quel grido che sicuramente Giuseppe più volte ha emanato, quella richiesta di aiuto, quel bisogno di complicità, di condivisione, di comprensione che chiedeva. Perché spesso la vita che già di per sé non è sotto il nostro controllo, ci sfugge totalmente di mano, la vita cade quando è sommersa dal vuoto ed il vuoto si genera quando la voce di una persona non è ascoltata, anzi è messa a tacere.
E lì, in quella terra di nessuno, dove la voce che rappresenta l’identità corporea di un uomo, viene taciuta che cresce e matura l’esasperazione che viene nutrita dalla solitudine.
E allora? Allora ogni volta che questo accade, tutta la comunità si dovrebbe mettere in discussione, perché noi siamo comunità, per volere politico e soprattutto per volere di Dio. E quando la comunità si infrange contro il muro dell’individualismo, dell’egoismo e della chiusura ecco che qualcosa si ribella e muore.
Il suicidio è la risposta estrema ed irrazionale della persona singola ad una comunità che non accoglie, che giudica, che etichetta e che mette a tacere la bellezza dell’essere unici ed esalta l’insensata massificazione.
Sentirsi amati ognuno nella propria unicità vuol dire entrare in sintonia con la comunità, quando ciò non avviene si materializza l’indignazione e l’indignazione genera rabbia che, per chi è toccato dalla fragilità, riversa contro se stesso e non su quella comunità che lo ha abbandonato, proprio perché le persone gentili e delicate come Giuseppe sono garbati con gli altri sempre… fino alla morte!