A cura di don Andrea De Vico
Anno A – IIIa Domenica di Pasqua (Lc 24, 13-35)
“Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo …”
Luca racconta il viaggio di “andata e ritorno” di due discepoli di Gesù che, dopo la tragica Pasqua di Gerusalemme, se ne tornano stanchi e sfiduciati ad Emmaus, villaggio a ridosso della capitale. Hanno finito il loro pellegrinaggio, abitano vicino, non hanno bisogno di pernottare nella capitale. C’è aria di tristezza e smobilitazione. Un terzo uomo si affianca per la strada e si mette a conversare con loro. E’ Gesù, ma essi non lo riconoscono perché hanno la vista annebbiata, dopo la recente e devastante esperienza di dolore.
Il “forestiero” fa finta di non essere al corrente dei fatti di cronaca, eppure sta uscendo dalla città! Possibile che non sappia niente di “Gesù, il profeta potente? … Speravamo che fosse lui a liberare Israele …” Ecco il punto: si erano illusi, avevano coltivato false speranze, e ora solo delusione e tristezza! Il “forestiero”, con una battuta a sorpresa, prende il controllo della conversazione e li ammonisce severamente: “Stolti e lenti di cuore! Non bisognava che il Cristo patisse per entrare nella gloria?” Avrebbero dovuto sapere! Erano stati istruiti dal Maestro stesso, in tre anni di predicazione, ma non avevano capito! Il Risorto va di nuovo loro incontro, li interroga, li lascia parlare, scioglie i dubbi, spiega i fatti. I due si sentono rincuorare, presi da forte emozione: “Non ardeva il cuore nel nostro petto mentre egli conversava con noi?” Arrivati al villaggio vogliono trattenerlo a cena, ma egli prima si fa riconoscere e poi sparisce.
Di ben altro tenore è il “viaggio di ritorno”: ora i discepoli sono in preda all’entusiasmo, fortificati dalla robusta spiegazione delle Scritture, impazienti di andarlo a raccontare ai compagni rimasti in città. Nessuno si sarebbe rimesso in viaggio a quell’ora, al buio, col pericolo dei briganti. Uno stradone di undici chilometri che, a passo svelto, richiede non meno di un’ora e mezza di cammino. Sono bastati pochi chilometri per passare dalla … de-missione alla missione.
Quel tratto di strada è diventato una magnifica parabola della nostra vita e, manco a dirlo, di una Chiesa come la nostra, che celebra il suo primo Sinodo Diocesano. Il cammino di Emmaus è il nostro viaggio di andata e ritorno, è il nostro stesso cammino di fede. Quando andiamo, siamo stanchi e sfiduciati per una disfatta o un insuccesso, non desideriamo altro che tornarcene a casa per i fatti nostri, per cui prendiamo la via del disimpegno e della smobilitazione. E’ difficile rimanere in questo gruppo, in questa comunità, in questa Chiesa, ci sono tanti buoni motivi per abbandonarla, esodarla, lasciarci tante cose alle spalle … Con tutto ciò, continuiamo a parlare di Gesù Cristo pensando di conoscerlo, un po’ come questi due discepoli che vanno per la strada discutendo di lui, ma stiamo parlando di un Cristo morto, sepolto, finito!
In realtà, il vero motivo per cui gettiamo la spugna è la mancanza di fede, è il mancato incontro col Risorto. Certo, siamo stati istruiti, abbiamo fatto il catechismo, abbiamo praticato i comandamenti, ma forse questa fede noi non l’abbiamo capita ancora, non l’abbiamo veramente accettata: “bisognava che il Cristo soffrisse, per entrare nella gloria”. Qui accade l’imprevisto: Cristo cammina accanto a noi, si presenta nelle vesti di un anonimo viandante, senza che ce ne accorgiamo. Per chi apre gli occhi e accetta l’Evento, ecco il senso, ecco la speranza! Comincia il viaggio di ritorno, dove ci sono i fratelli di fede! Quella fede che sembrava un peso, ora viene assunta come un compito!
A Emmaus lo avevano riconosciuto allo spezzare del pane. Non tanto “il pane”, quanto “la frazione” del pane. Non l’ “oggetto-pane”, ma l’ “azione-di-condividerlo”. Stiamo attenti a non ridurre l’Eucarestia a un premio per le anime buone la cui grande preoccupazione è quella di confessarsi per stare a posto e farsi la comunione la domenica a Messa. Senza la condivisione, l’Eucarestia diventa anch’essa un feticcio, un idolo vuoto che noi andiamo a riempire con un “pieno di sé” per avallare un nostro sentimento di bontà, per dire a noi stessi che stiamo bene così. Quel che costituisce l’Eucarestia non è la “sacralità” del pane, ma il “gesto” della condivisione, per cui l’Eucarestia la possono toccare tutti, si prolunga anche nel pasto caldo offerto ai poveri alla stazione ferroviaria, dove ci sono tante persone bastonate dalla vita e rassegnate a un viaggio di sola andata. Dovremmo fare come ha fatto Gesù: incontrare, interrogare, lasciar parlare, sciogliere i dubbi, spiegare i fatti e poi … scomparire, dopo aver lasciato una parola, un pane o una veste.
Mai diffidare dello straniero, sfoderando un’aria di superiorità, o manifestando sentimenti di avversione o di paura. Reagiamo male perché la sua presenza ci conduce al confronto con noi stessi, e questo non ci piace. Il primo contatto non è immediato, tuttavia se ci fermiamo ad ascoltarlo, ci accorgiamo che lo straniero spesso la sa più lunga di noi, è laureato, è latore di un’autentica rivelazione! Lo straniero, talvolta, è Cristo stesso che si improvvisa nostro compagno di strada!