A cura di don Andrea De Vico
Anno A – V Domenica di Pasqua (Gv 14, 1-12)
“Carissimi, avvicinandovi al Signore, siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio” (1Pt 2, 4-5)
Pietro ci invita a “offrire sacrifici spirituali graditi a Dio”. Certo, questo avviene nella Liturgia, ma non dobbiamo pensare alla Liturgia come se fosse una cosa a parte, staccata dalla vita. La Liturgia, essendo l’ “offerta” che Gesù fa di sé al Padre, ci apre la magnifica possibilità di unirci a Lui e presentare “noi stessi”, la nostra esistenza, a quel Dio che senz’altro la gradisce, l’accetta, la santifica. Può mai esserci atto che abbia un valore più alto di questo?
Anche Paolo: “Vi esorto ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12, 1). Badiamo: si parla di “corpi”, non di “anime” soltanto. Di conseguenza, quando l’offerta liturgica è autentica, viene anche a cadere la distinzione (utile ma artificiale) tra “sacro” (cosa intoccabile, da tenere a distanza) e “profano” (cosa di uso comune, che si può toccare). Se infatti nel corso di una Liturgia noi abbiamo l’ardire di offrire a Dio quello che siamo, insieme alle fatiche che viviamo nel mondo, vuol dire che tutta la realtà che saremo riusciti ad abbracciare recherà l’impronta di un tocco divino, per cui ogni cosa sarà meritevole di rispetto. Paradossalmente, mettendoci al riparo di Pietro e Paolo, potremmo dire la Liturgia non è “sacra”, ma è “pubblica”, è di tutti, tende ad abbracciare la vita di tutti, di ogni esistenza che rappresenta un’orizzonte a sé.
Persino la morale ne guadagna: nel momento in cui abbiamo realizzato la nostra offerta in tutta sincerità, non avrà più senso porsi quelle domande lancinanti dalle risposte impossibili: fino a che punto possiamo spingere la linea di demarcazione tra il giusto e l’ingiusto, il puro e l’impuro, ciò che si può fare e ciò da cui ci si deve astenere …
Purtroppo, contrariamente agli inviti di Pietro e Paolo, invece di realizzare l’offerta “totale” di noi stessi, noi troviamo più conveniente frammentarla, negoziarla, considerarla alla stregua di un dato statistico. Per esempio, abbiamo diviso il popolo dei cattolici in “credenti praticanti” e “credenti non praticanti”, elaborando una inutile distinzione tra “fede creduta” e “fede praticata”, alzando una barriera artificiale tra “quelli che frequentano” e “quelli che non frequentano”. Se ci limitiamo al solo aspetto sociologico, la Chiesa con tutte le sue Liturgie sarà una semplice “agenzia di significati” come tante altre presenti sul mercatino della storia, in cui ognuno entra quando gli pare e si prende quello che vuole, e noi ci limiteremo a fare la conta dei fedeli. E’ incredibile vedere gente che si presenta solo per le ricorrenze, quando c’è un morto da seppellire o un nome da ricordare. Ancora più incomprensibile è l’atteggiamento dei “praticanti” che si ostinano a venire a Messa tutte le domeniche col pensiero che questo basti a giustificarli, a guarirli, a gratificarli.
Se invece dei numeri guardiamo alla qualità dell’offerta, potremmo fare delle scoperte imbarazzanti. Per esempio, se il culto non dovesse corrispondere alla vita, la religione diventa un paravento ideale per coprire le azioni più ignobili, e le preghiere strascinate dall’abitudine funzionano a meraviglia, come anestetico per desensibilizzare una cattiva coscienza. D’altro canto, e qui il Vangelo fa scuola, potremmo anche trovare delle persone bastonate dalla vita, manipolate dal sistema, messe in vendita sui marciapiedi o sulle passerelle, ma che recano intatto (cioè “non toccato”, “sacro”) il senso della dignità umana, per cui possono levare in alto il grido della loro esistenza, cosa che ha il potere di “bucare” il cielo! Cos’altro può diventare il gemito di una vita travagliata, se non un “sacrificio spirituale gradito a Dio?”
Sempre in ambito sociologico, può accadere che i problemi organizzativi di una comunità prendano il sopravvento sull’essenziale. Per Giovanni Crisostomo, “di che utilità potrebbe mai essere una predicazione senza preghiera?” ( ). Luca risponde: “Noi ci dedichiamo alla preghiera e al ministero della Parola” (At 6, 4). Prima la preghiera, poi il ministero!
Una bella lezione, per noi che ci mettiamo a fare i teatrini “per attirare i giovani” nella speranza che la gente torni a “frequentare”. Se facciamo questo vuol dire che siamo gente di poca quota, continueremo a formare dei cristiani che si presenteranno solo quando c’è da sparare le botte per aria, mangiare e fare moine in caso di matrimoni e funerali. Nelle nostre comunità dovremmo poter dire, sempre: “prima la preghiera, poi le iniziative!” Se c’è un problema o un’impresa da intraprendere, la prima cosa da fare è mettersi in ginocchio e pregare. Rinnovare l’offerta e autenticare la propria disponibilità, senza bypassare il tesoro della Pubblica Liturgia, altrimenti qui si lavora a vuoto!