Abbiamo un Pontefice meraviglioso, non poteva farci dono migliore il Signore nell’offrirci un grande comunicatore, un grande sociologo, un esperto della relazione interpersonale. “Le chiusure e i rifiuti fanno correre più rischi”. Papa Francesco è tornato a parlare dei migranti e sottolinea ancora i “valori della fraternità“:
“L’isolamento sviluppa paura e diffidenza e impedisce di godere della fraternità. Bisogna proprio dirci che si corrono più rischi quando ci isoliamo di quando ci apriamo all’altro: la possibilità di farci male non sta nell’incontro ma nella chiusura e nel rifiuto”, ha affermato il Pontefice. E aggiunge: “Noi siamo fatti per stare con gli altri: la nostra umanità si arricchisce molto se stiamo con tutti gli altri e in qualsiasi situazione essi si trovano. È l’isolamento che fa male non la condivisione”.
Psicologicamente discorrendo, nei momenti di crisi tendiamo ad accentuare il polo dell’appartenenza per ritrovare in esso un rifugio contro l’angoscia e lo smarrimento. Per questa ragione le grandi svolte reazionarie sono storicamente sempre state precedute da profonde destabilizzazioni dell’ordine sociale. Il bisogno di conservazione è strettamente connesso alla vertigine provocata dalla caduta del confine identitario. Senza confini la vita perde se stessa, si polverizza, si frammenta.
Per scongiurare questo rischio, come la psicologia delle masse insegna, si può invocare un rafforzamento del confine, una sua impermeabilizzazione estrema. Il “protezionismo” economico diventa in questo caso sintomatico: si tratta di proteggere l’identità di una città o di una nazione minacciata nella sua integrità e nella sua storia; si tratta di difendere il prodotto “interno” dall’invasione di quello che viene dall'”esterno”; si tratta di ristabilire i confini, di preservare la propria identità dal rischio della sua alterazione provocata dalla concorrenza invasiva dell’Altro..
E tuttavia esiste un altro polo – altrettanto essenziale allo sviluppo della vita psichica come a quello di una città o di una nazione – che è quello dell’apertura, della necessità di oltrepassare il confine. Se, infatti, la vita non sa scavalcare il regime ristretto della propria identità, se non sa muoversi dal proprio bisogno di appartenenza verso una contaminazione con l’alterità dell’Altro, fatalmente stagna, appassisce, non può che ripetere sterilmente se stessa.
La vita, come insegna del resto anche Spinoza, può conservarsi solo espandendosi, oltrepassando il confine che gli è stato necessario alla sua istituzione. Quando la vita di un gruppo, di una città , di una nazione, di un soggetto si ammala? Cosa davvero fa declinare la vita, cosa la rende patologica? La psicoanalisi propone una risposta sconcertante: la vita che si ammala è quella che resta troppo attaccata a se stessa, che resta vittima della tendenza omeostatica alla propria conservazione, è la vita che ingessa, cementifica, rafforza unilateralmente il proprio confine narcisistico. Se il confine serve a rendere la vita propria, questo confine, per non diventare soffocante, deve, come si esprimeva Bion, divenire “poroso”, permebabile, luogo di transito. Se invece il confine assume la forma della barriera, della dogana inflessibile, se diviene presidio, luogo impossibile da valicare atrofizza e non espande la vita. Venendo meno l’ossigeno indispensabile dell’alterità, la vita si ammala e declina. La necessità del confine va quindi unita con la necessità del movimento e del transito al di là del confine. In questo senso la difesa della purezza identitaria è sempre animata da un fantasma fobico che non lascia spazio allo straniero.
Ma a quale straniero? Il nero, l’ebreo, l’extracomunitario, il profugo, l’omosessuale, il diverso? Un altro insegnamento prezioso viene dalla psicologia: lo straniero prima di venire da fuori, abita in noi stessi. Ciascuno di noi porta con sé il proprio “nemico”; ciascuno di noi è Caino, ciascuno di noi è straniero a se stesso. Per questo Freud suggeriva di definire l’inconscio come un “territorio straniero interno”. Dove l’ambiguità di quella espressione (“straniero interno”) dovrebbe essere sufficiente per scalfire l’irrigidimento paranoico-immunologico del confine identitario. Non si tratta di esaltare un nomadismo senza radici che cancellerebbe le differenze particolari, di negare ingenuamente la necessità del confine, ma di integrare innanzitutto lo straniero-interno rendendo i nostri confini più plastici.
Aveva ragione il filosofo francese Gill Deleuze: attenzione al «fascista che siamo noi stessi, che nutriamo e coltiviamo, a cui ci affezioniamo»; attenzione alla spinta cieca alla conservazione di noi stessi che si nasconde nel proclamare una democrazia finalmente realizzata che anziché rendere porosi i suoi confini li sa solo armare.