A cura di don Andrea De Vico
Anno A – Domenica dopo Pentecoste, SS.ma Trinità (Gv 3, 16-18)
“In quel tempo, Gesù disse a Nicodemo: ‘Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna …’ ”
Se “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio”, vuol dire che Lui “stima” il mondo, “stima” l’umanità meglio di quanto non lo sappiamo fare noi uomini che siamo i diretti interessati. “Stimare” una cosa significa essere disposti a pagarne il prezzo. Dio dice: “c’è un’umanità da salvare, c’è più vita da donare, quale prezzo sono disposto a pagare? ecco: mando mio Figlio, lo faccio uomo anche lui, non c’è via migliore …” Difatti la vita di un uomo è l’unica cosa che valga quanto la vita di un altro uomo. Se c’è qualcosa che possa salvare un uomo, questo è un altro uomo.
È difficile “stimare” una persona, perché al di là delle prestazioni quantificabili, essa reca una dignità, cosa che non ha prezzo. Quando la persona prende coscienza del suo valore, arriva a conoscere il suo posto nel mondo e la missione che le è data da svolgere. Senza questa stima, la vita rimane piatta, insignificante, e la persona rischia di fallire lo scopo della sua esistenza. Il primo luogo in cui la persona impara il concetto del suo valore è la casa, la famiglia. A dire il vero, i primi sentimenti sono sempre negativi. La paura, ad esempio, accompagna l’essere umano dalla nuda nascita fino ai vertici della sua realizzazione. Il bambino ha paura di essere abbandonato, del buio, di chi alza la voce, dei mostri … L’adolescente ha paura dell’altro sesso e sviluppa dei complessi di timidezza e inferiorità, la paura di non farcela o di non essere all’altezza … Il giovane ha paura di non trovare lavoro, o se ha un lavoro ha paura di perderlo … L’adulto ha paura di non arrivare alla pensione, l’anziano che gliela tolgano … Ma le paure sono come i fantasmi, hanno bisogno del buio per agire. Se le teniamo in vita, nel buio dell’inconscio, esse prendono il sopravvento. Ma se le portiamo alla luce, una volta dichiarate, si ridimensionano, si dissolvono.
Una casa protegge, e una comunità che riproduce il calore di una casa aiuta la persona a non farsi vincere dalle sue paure. Un giovane che si sente stimato a casa, tende a sua volta a stimare gli altri e a non soccombere allo “spaesamento” quando esce fuori casa, per un lavoro o una vacanza. Un giovane che ha imparato la stima di sé e degli altri, è latore della promessa domestica: “non avere paura”. Che studi o si diverta, che soffra o si innamori, che trovi il lavoro o che lo perda, la parola d’ordine sarà sempre la stessa: “non avere paura”.
E noi di Chiesa, siamo gente che sa stimare, apprezzare? Amiamo questo mondo al punto da desiderare la sua salvezza, o ci limitiamo a ritagliarci degli spazi protetti? Talvolta, invece di fare la “stima” delle forze, ci ripieghiamo nella sindrome del profeta accartocciato. Elia, perseguitato dalla regina Gezabele che lo vuole morto, si rifugia ai piedi dell’Oreb, lo spazio sicuro della montagna sacra, e se ne lamenta con Dio: “solo io ti sono rimasto fedele!” Ma il Signore gli fa notare un piccolo … particolare: in città ci sono altre settemila persone che, come lui, non hanno piegato le ginocchia ai Baal! A quanto pare, chi si lamenta degli altri, deve essere lui stesso ad avere un problema: non sa “stimare”, non sa riconoscere, sta sbagliando messaggio, sta sbagliando vangelo!
Anche in pedagogia è così: chi dona “senza stimare”, offende, e dare la vita ad un figlio “senza stimarla”, finisce per creare una società di delinquenti. Difatti il camorrista, prima di arrecare un danno alla società, danneggia i suoi stessi figli, che non imparano il concetto del valore della vita umana. Che stima può avere di sé stesso, uno che ha il padre lestofante? Meno male che sulle nostre teste c’è Qualcuno che stima le persone per quello che valgono!