A cura di don Andrea De Vico
Anno A – XXV per Annum (Mt 20, 1-16)
“Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna …Uscito verso le nove del mattino …Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre… Uscito ancora verso le cinque… ”
A questa pagina del “padrone generoso” possiamo anche dare il titolo di “parabola sindacale”. Ci sono degli operai che protestano non perché abbiano ricevuto meno di quanto pattuito, ma per il fatto che altri hanno ricevuto di più. Vista l’urgenza del lavoro, questi operai sono stati arruolati nelle diverse ore della giornata, che in quel tempo veniva divisa in quattro quadranti: ora di prima, di terza, di sesta e nona. Bisogna terminare la vendemmia prima che arrivino le piogge. L’annata è ottima, gli occhi del padrone sono pieni di soddisfazione, bisogna far presto, bisogna cercare quante più braccia possibili, anche se rimediate all’ultimo quarto di giornata.
A sera ecco la sorpresa: a tutti viene data la stessa paga di un denaro. Quelli della prima ora si rivoltano. A loro avviso è stata compiuta una grande ingiustizia: hanno faticato fin dal mattino, gli altri solo un’ora; hanno sopportato il calore del giorno, gli altri sono stati al fresco. La cosa sembra violare il principio della giusta ricompensa, quanto basta per organizzare una protesta. C’è un capoccia che grida più di tutti, a nome di tutti gli altri, talmente indignato da trascurare di chiamare il padrone per nome. Questi, per tutta risposta, lo umilia proprio sul piano della giustizia, ricordandogli quanto pattuito, dandogli ironicamente dell’ “amico”.
Perché dare a tutti lo stesso salario? Ingiustizia, puro arbitrio, capriccio, prodigalità, bizzarria da pascià? Certo, il raccolto è stato abbondante e le aspettative del padrone soddisfatte, al punto che può anche permettersi di pagare gli ultimi quanto i primi. Ancora più inattesa è la conclusione di Gesù: “gli ultimi saranno i primi, e i primi, ultimi”. Che significa? Chi sono gli ultimi, e chi sono i primi? Il racconto presenta due vertici narrativi: l’arruolamento degli operai con la magnanima disposizione circa il loro pagamento, e l’indignazione di quelli che si reputano “danneggiati” dal comportamento del padrone. L’accento è posto sul secondo membro: è li che l’intenzione del narratore vuole arrivare.
Infatti Gesù, nel suo racconto, tende a identificare e colpire l’atteggiamento di quelli che “sono invidiosi, perché Dio è buono”. Si tratta dei soliti “farisei”, suoi nemici giurati, che entrano spesso in polemica con lui, per il successo della sua predicazione. Gelosi dei propri privilegi, essi stanno alla larga dai “peccatori”, che in quel tempo costituivano una vera e propria classe sociale, composta da gente che esercitava “mestieri impuri” o disonorati, quali: collettori di imposte, pastori, asinai, venditori ambulanti, conciatoi, prostitute e truffatori. Secondo i farisei, quei mestieri conducevano alla disonestà e all’immoralità, per cui i “peccatori” che li esercitavano venivano privati dei diritti civili e religiosi (accesso alle cariche, ai tribunali, alle sinagoghe …)
Con questa parabola, Gesù vuol mostrare ai farisei quanto sia odiosa e ingiustificata la loro critica, nei confronti della sua predicazione di un regno di Dio che accoglie anche e soprattutto i “peccatori”. Badiamo bene che non si tratta di “peccatori” in senso morale, come subito intendiamo noi, ma di “peccatori” come categoria sociale: lazzaroni, pezzenti, falliti, avanzi di galera, stranieri, gente comune, scartati … Tutta una folla di gente che in realtà, dal punto di vista del Regno di Dio, un giorno passeranno avanti a quelli che pensano di essere i primi, in società.
Quest’unico denaro che viene offerto a tutti è il regno di Dio. Gesù vuol dire che Dio è fatto così: si comporta come un padrone generoso e buono, che non guarda al “merito”, ma al “bisogno” della persona. Lo scopo della narrazione non è il “pagamento” del lavoro, ma la “chiamata” a far parte di questo Regno. Dio non è un “ragioniere” che prende nota di tutto, anche se ci piace pensarlo così, per sentirci più importanti. Si tratta di un Dio che si comporta come un padrone felice e generoso al momento del raccolto: ce n’è per tutti, ma si vede che non tutti sono d’accordo!
L’atteggiamento interiore dei farisei, oggi, si ripropone in quelli che pensano nei termini di: “noi” e “gli altri”.
In quelli che si rattristano per l’altrui felicità, pensando che qualcosa sia stata loro sottratta. In quelli che non sopportano gli altri quando fanno il bene o si vogliono bene. In quelli che non perdonano agli altri la loro intelligenza, la loro bellezza, la loro giovinezza.
In quelli che mormorano contro Dio per la grazia che offre agli ultimi della classe. In quelli che vorrebbero un Dio che faccia il ragioniere. In quelli che vanno a spiare sotto le dita di Dio quanti favori concede agli uni e agli altri.
La parabola, presa così, non capita, giustifica il disimpegno escatologico. Difatti, nei racconti del catechismo, la parabola ha fornito ai negligenti l’alibi dell’ultimo momento: se ti confessi prima di morire, certamente andrai in paradiso. Ma questa storiella della confessione rimediata all’ultimo momento poteva andare bene in tempi di peste, quando la mattina stavi in buona salute e la sera ti ritrovavi moribondo. In tempi normali la confessione deve essere fatta “adesso” che stai bene, perché non ti converti “adesso”, stai tranquillo che non lo farai neanche “nell’ora della nostra morte”, ammesso che te ne venga data la possibilità.
Questa “parabola sindacale” non è dunque un raccontino moraleggiante, tipo “la volpe e l’uva”, ma è lo spartiacque tra due mondi: tra la Legge e il Vangelo, tra il merito e il dono, tra l’etica e la grazia, tra il dio laico (Mammona) e il Dio di Gesù Cristo. Tant’è vero che i detentori del vecchio mondo, i farisei, i primi, gli altolocati, quelli che sentono di far parte di una casta, di una lobby, di un club di vip o di una nazione privilegiata, hanno reagito con ferocia.
Bella
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