A cura di don Andrea De Vico
Anno A – XXVI per Annum (Mt 21, 28-32)
“Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: figlio, oggi va a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: non ne ho voglia. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo …”
Il successo della predicazione di Gesù ha sollevato una grossa polemica. Mentre pubblicani, prostitute “peccatori” si mettono in ascolto – e lui mangia e beve insieme e loro – scribi e farisei, sacerdoti e anziani, ne restano scandalizzati: “che razza di profeta è, uno che se la fa con questa gente?” Per giustificare queste “amicizie dubbie”, Gesù passa al contrattacco con una parabola: “Un uomo aveva due figli …”
Ogni volta che Gesù parla di Dio, usa l’unica metafora autorizzata dalla religione biblica: “un uomo”. “Il regno dei cieli è simile a un uomo che piantò una vigna … è simile a un padre di famiglia … ad un mercante … a un cercatore di perle … a una massaia …” Gli ebrei avevano maturato il concetto del “nascondimento” di Dio, si tratta di un “Dio nascosto”: nessuno può dire chi sia, dove sia e cosa faccia, a differenza della altre divinità del tempo antico che risiedevano in cima alle montagne, nei templi o nei boschi.
Quale segno è adatto a rivelarlo? Può mai Dio trovarsi in un oggetto, un’immagine, una statua, un albero, un luogo, una montagna? Possiamo mai pretendere di provare o meno la sua esistenza con le lenti ottiche, nell’infinitamente grande dell’universo o nell’infinitamente piccolo delle particelle subatomiche?
No: l’antico comandamento non permette nessuna figurazione di Dio, nessuna immagine, nessuna scultura, nessun idolo, nessuna filosofia, nessun concetto, nessuna cognizione scientifica, persino il suo nome deve restare impronunciabile. E noi che ci applichiamo a costruire tante teorie su di lui, perdendo il senso della sua presenza! Perché la proibizione di raffigurare Dio per immagini? Semplice, per il fatto che un essere che lo rappresenta c’è già: l’uomo. Se vuoi avere un’idea di Dio, devi guardare la sua opera migliore: l’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza. Non è che ci sia un’identificazione tra Dio e l’uomo: si tratta pur sempre di una metafora, di un termine di paragone: dove c’è l’umanità realizzata, li c’è Dio, dove non c’è umanità, ci può anche stare la bestia o il diavolo. I superuomini non esistono, le superbestie, si.
Così, nella “parabola di figli dissimili”, ecco un padre di famiglia che chiede al primo figlio di subentrare al suo lavoro alla vigna. Segno che il padre si fida di lui, gli affida qualcosa di caro e prezioso, vedendo in lui competenza e capacità di conseguire un risultato. Ma si vede che questo figlio non coglie la finezza e, reputandosi già adulto, non volendo fare la figura del garzoncello che ancora dipende dal padre, si rifiuta di andare, salvo il ripensarci un poco più tardi. Intanto il padre trasmette la consegna all’altro figlio, che risponde prontamente: “sissignore”, ma poi si lascia distrarre da un’allegra compagnia di amici sfaccendati incontrati per la strada.
Nell’animo dei due ragazzi accade qualcosa che non corrisponde alle dichiarazioni esterne: l’obbedienza sostanziale del primo, e l’obbedienza soltanto formale del secondo. Il primo figlio, di animo retto, dopo un primo momento ribellione, pentitosi di aver disgustato il padre, si reca alla vigna senza parlare e vi lavora tutto il giorno, tornando a casa soddisfatto e con la pace nel cuore per il dovere compiuto. Il secondo invece, bugiardo e vile, è vero che è uscito di casa per andare a lavorare, ma poi ha fatto filone, si è perso a vagabondare per la città. A sera tutti e due fanno ritorno. Il primo si presenta sporco e scarmigliato, ma col cuor contento e il saluto sincero. L’altro invece ha tutto l’aspetto stanco della persona oziosa, le vesti bene in ordine e il saluto incerto dato al padre, per la paura di essere “sgamato”. In effetti il padre li mette a confronto, e gli basta un’occhiata per capire dove hanno passato la giornata.
Questi figli sono tutti e due incoerenti. L’incoerenza del primo è comprensibile, di tipo adolescenziale: dire di no, per poi pentirsene e accettare la consegna. Quella del secondo è un’incoerenza odiosa: dire di sì con le parole, e poi tutto il contrario nei fatti. Gesù, per rispondere alla polemica degli avversari, applica questa parabola alla vicenda del Battista: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto”. Questo è il punto: i peccatori e le prostitute si sono convertiti, voi sacerdoti e anziani, no! Giovanni ha subito un rifiuto da un lato, e accoglienza dall’altro, come l’uomo della parabola.
E non finisce qui: sempre in virtù della stessa parabola, Gesù dice che Dio non apprezza chi nel Tempio dice: “Signore! Signore!”, battendosi il petto senza vero pentimento, osservando dei riti devoti per sentirsi a posto, e poi, uscito fuori, apre la bocca e parla a sproposito degli altri. In effetti le persone religiose sono le più dure a convertirsi, mentre tutta questa gentaglia bassa, ignorante e di malaffare, così lontani dalla volontà di Dio, nel momento che la incontrano, sono i primi ad accoglierla con gioia, per cui passeranno avanti a molti che sono detti: grandi, maestri, santi! I primi che entrano per ultimi, e gli ultimi per primi!