Stefano De Martis
È stato ribattezzato Rosatellum-bis o 2.0. È il testo della riforma elettorale per i due rami del Parlamento che ora viene sottoposto all’esame dell’aula della Camera, dopo essere stato approvato in sede referente dalla commissione Affari Costituzionali lo scorso 8 ottobre. Rosatellum dal nome del capogruppo del Pd a Montecitorio, Ettore Rosato, bis o 2.0 perché si tratta di una nuova versione rispetto a quella presentata nella passata primavera. Si tratta di un sistema elettorale misto, quindi in parte maggioritario e in parte proporzionale. Il nostro Paese ha già conosciuto un sistema di questa natura, il cosiddetto Mattarellum (ne fu relatore l’attuale presidente della Repubblica), con cui si è votato nel 1994, nel 1996 e nel 2001. Ma rispetto ad allora c’è una differenza fondamentale: in quella legge, infatti, la quota maggioritaria era largamente prevalente (il 75%), mentre in quella odierna è di poco superiore a un terzo (il 36%) e dunque il carattere dominante del sistema è proporzionale.
Alla necessità di approvare nuove regole elettorali si è arrivati dopo le sentenze della Corte costituzionale sulle leggi pre-esistenti. I sistemi che residuavano dalle bocciature della Consulta erano sì “auto-applicativi”, dunque potenzialmente utilizzabili per il voto, ma presentavano tali incongruenze fra loro da rendere ineludibile un intervento almeno per eliminare le contraddizioni più eclatanti. Anche dopo le ripetute sollecitazioni del Capo dello Stato, il Parlamento ha finalmente posto mano a una riforma organica, che sembrava in dirittura d’arrivo già prima dell’estate. Ma a giugno l’accordo è saltato durante le votazioni in aula e si è ritornati in commissione con una nuova proposta e un nuovo esame. Vediamo, dunque, gli aspetti fondamentali del testo così com’è stato trasmesso dalla commissione Affari Costituzionali all’assemblea dei deputati.
I collegi uninominali sono 231 (più quello della Valle d’Aosta) alla Camera e 109 al Senato (più quello della Valle d’Aosta e 6 in Trentino-Alto Adige). In essi conquista il seggio il candidato che ottiene più voti, secondo la logica del maggioritario. Quindi, per poter competere nei collegi uninominali, le forze politiche sono spinte a mettersi insieme, a formare delle coalizioni. Ed è questo l’aspetto politicamente più rilevante della riforma. I restanti seggi, che in realtà sono la maggior parte, quasi i due terzi del totale, vengono assegnati con riparto proporzionale (al Senato su base regionale) a liste o coalizioni di liste. La soglia minima per accedere al riparto è del 3% per le liste singole e del 10% per le coalizioni. Dentro le coalizioni non vengono computati i voti delle liste sotto l’1%, una regola che serve per limitare il fenomeno delle liste di comodo.
Il tutto avviene con un’unica scheda elettorale, che ricorda quella per l’elezione dei sindaci. Su di essa compaiono i nomi dei candidati nel collegio uninominale con accanto il contrassegno (o i contrassegni) del partito (o dei partiti) che li sostengono. A fianco dei contrassegni sono scritti i nomi dei candidati che concorrono al riparto proporzionale di lista. Liste molto corte – da due a quattro nomi – per consentire all’elettore di capire per chi sta votando (è stata la Corte costituzionale a sancire questo criterio). I candidati uninominali, se “vincono” nel loro collegio, risultano eletti direttamente. Quelli delle liste vengono eletti sulla base dell’ordine di presentazione e quindi in moltissimi casi si tratterà del capolista.
L’elettore esprime un unico voto: se segna soltanto il candidato uninominale, il voto vale anche per la lista o, in caso di coalizioni, per le liste collegate (pro quota tra di loro in proporzione ai voti di ciascuna lista); se segna soltanto una lista, il voto vale anche per il candidato uninominale collegato.
Uno stesso candidato può concorrere al massimo in cinque liste proporzionali e in un collegio uninominale.
Per assicurare la cosiddetta “rappresentanza di genere”, i candidati nelle liste devono essere collocati secondo un ordine alternato tra uomini e donne. Nessun genere può essere rappresentato in misura superiore al 60% nella posizione di capolista e così pure nell’insieme dei collegi uninominali a livello nazionale.
I parlamentari eletti nelle circoscrizioni estere restano 12 alla Camera e 6 al Senato.
Da Agensir