Marco Testi
Siamo nel 1928. Clemente Rebora, autore-chiave della poesia italiana del Novecento, di cui ricorrono i sessant’anni della scomparsa, sta tenendo una conferenza sui martiri cristiani al Lyceum di Milano. Nel momento in cui parla di alcuni che, rifiutando la clemenza del proconsole romano, fanno la loro professione di fede, andando incontro alla morte, secondo la testimonianza di un suo amico presente “non poteva andare più avanti (…). La vista gli si annebbiava. Qualche cosa gli stringeva la gola. Si prese la testa tra le mani. Si sentì smarrito. Non fu capace di proseguire”.
È l’apice della crisi che porterà il grande poeta autore dei “Frammenti lirici” (1913), una delle più grandi testimonianze dello smarrimento dopo la fine delle certezze positivistiche, all’ordinazione sacerdotale. Un percorso che ad alcuni è sembrato spezzato in due: un primo Rebora, quello dei “Frammenti lirici” (1913), una delle più grandi testimonianze dello smarrimento dopo la fine delle certezze positivistiche, all’ordinazione sacerdotale. Un percorso che ad alcuni è sembrato spezzato in due: un primo Rebora, quello dei “Frammenti lirici” (ma anche dei “Canti anonimi”, 1922) e poi l’altro, quello della conversione, del sacerdozio e del silenzio.
Le cose stanno esattamente così: Rebora era un uomo, e come tale, sottoposto a inevitabili cambiamenti,
come aveva intuito Pirandello. La poesia in lui c’è sempre stata. La stupenda “Dell’immagine tesa”, dedicata in realtà ad una persona, è nello stesso tempo, come accade nella vera poesia, una attesa d’infinito; non a caso nelle liriche di Dante e Petrarca dedicate alla donna del loro cuore, emerge contemporaneamente la necessità di innalzare quell’amore a vette non solo terrene.
Quel “E non aspetto nessuno;/ fra quattro mura/ stupefatte di spazio/ più che un deserto” si risolve, nella medesima lirica, in un “Verrà a farmi certo/ del suo e mio tesoro,/verrà come ristoro/ delle mie e sue pene”.
Quando entrerà tra i Rosminiani avrà bisogno di un silenzio purificatore, che però non durerà fino alla fine, perché poi tornerà alla poesia, seppure una poesia di radicale religiosità.
Questo fatto ha portato molti a ritenere che la stagione poetica di Rebora fosse finita. Non è così. Semplicemente il poeta milanese (era nato nel 1885) era sprofondato nelle radici elementari del verso, le fonti primarie, dove non esistono artifici retorici o sentimentalismi.
Una volta consacrato, il colto scrittore-insegnante, autore di liriche che rimarranno nella storia di letteratura, ebbe a scrivere un brevissimo frammento: “lungi da me la scappatoia dell’arte/ per fuggir la stretta via che salva!”, che non ha bisogno di ulteriori commenti. Il grande e celebrato poeta della crisi primo-novecentesca sembrava tornato indietro, ad una poesia sacramentale, devozionale. Ma a spiegare questo può bastare il magistero del Paradiso di Dante, allorché mano a mano che il Poeta si avvicinava alla visione del Non-Dicibile, avvertiva il lettore che le umane parole non sarebbero più bastate.
Rebora ha portato fino in fondo il viaggio, anzi, ha attraversato il silenzio dopo l’incontro con il Numinoso ed è tornato poi a parlare. Ma dopo quell’incontro le parole non potevano più essere quelle della pur altissima retorica amorosa o speculativa.
Una testimonianza radicale di prossimità al Divino, che non tutti hanno capito nella sua immensa onestà.
Da Agensir