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“Credo ma non vado in chiesa”

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“Credo, ma non vado in chiesa”.

È una frase che sento ripetere tante volte, soprattutto da persone giovani che hanno buoni sentimenti e che vorrebbero una società diversa, dove prevalgano i valori della solidarietà, del rispetto, della giustizia, dell’onestà…

Questi modi di dire mi mettono in crisi, perché mi fanno capire che molta gente scollega la vita delle parrocchie dal cambiamento della società, riducendo la Comunità cristiana a un luogo dove trovare rifugio nei momenti problematici – una specie di ASL dello spirito – o legittimazione e sacralizzazione “protocollare” delle svolte della vita (nascita, matrimoni, morte…).

Ma è per questo che la Chiesa sta tra le nostre case? Per fare questo, persone giovani e promettenti scelgono di diventare preti? O laici seri e impegnati in tutto il mondo mettono a disposizione tempo ed energie per portare avanti la vita delle nostre parrocchie? Per fare questo, io, da quasi cinquant’anni, ho scelto di fare il prete, smontando i sogni di mio padre, che, visti i miei risultati scolastici, pensava per me una professione importante e redditizia?

Penso che dobbiamo fare uno sforzo serio per capire cosa ci sta a fare la Chiesa. E chi è il cristiano.

Troppo spesso lo identifichiamo come un devoto che ha l’abitudine di frequentare la Chiesa per soddisfazione o bisogno personale: la religione in taluni momenti gli è utile e gli offre emozioni belle; in circostanze particolari (Natale, feste patronali, qualche tragedia…)  lo fa sentire buono, approvato e sostenuto da “forze superiori e misteriose” che “portano bene”. Insomma, una persona bisognosa di supporti e approvazioni… Il che spiegherebbe come alcuni professionisti o alcuni giovani pieni di vita e di prospettive snobbano la parrocchia, pensando di non averne bisogno…, salvo in articulo mortis e dintorni.

Il cristiano invece è uno che non solo desidera una società migliore, ma si spende per costruirla con gli altri, prendendo a modello l’Uomo vero, Gesù di Nazareth. È uno che invece di far notare (e criticare) quello che non va, si unisce agli altri per costruire un mondo che va meglio, pur nelle difficoltà di dialogare e camminare insieme per persone che non sono perfette. Ma quelle perfette non sono sul mercato del mondo.

In questa logica, andare in Chiesa significa andare a scuola di umanità e impegnarsi a costruire con  altri credenti stili nuovi di vita che contrastano la deriva dell’individualismo, causa fondamentale di sofferenze e di scadimento della convivenza sociale. Alla scuola di Gesù, si impara a ragionare secondo la mentalità del “NOI” e a superare quella dell’IO (cioè dell’interesse personale sopra ogni cosa, da cui derivano conflitti, ruberie nell’amministrare la cosa pubblica, bullismi, privilegi e ingiustizie, sfruttamento del debole da parte del forte…).

Qualcuno continua a dirmi: Alife è cambiata (sottintendendo: in peggio). Non mi meraviglio, vedendo che tanti hanno con la Chiesa solo contatti occasionali e formali: dove dovrebbero imparare ad essere uomini e donne diversi? Quando diciamo: io credo, ma non vado in Chiesa, evidenziamo la debolezza  di una fede, intesa come contentino rassicurante di chi pensa solo a sé stesso  e si illude di poter vivere una umanità autentica non entrando nelle prospettive grandi del Vangelo, ma facendosi coccolare da un “dio” piccolo piccolo, che si è costruito con la sua fantasia, che lo rassicura, ma che lo fa morire dentro e fa di lui non uno che cambia la società, ma uno che di fatto la peggiora, con la pretesa farisaica di “essere buono”.

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