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III Domenica di Avvento. Commento al Vangelo, L’Inno alla Gioia

Anno B - III di Avvento (Gv 1, 6-8; 19-28)

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a cura di don Andrea De Vico

La terza domenica di Avvento è detta “della gioia” (“Dominica laetare”) per i diversi richiami della liturgia: “Io gioisco pienamente nel Signore…” (Isaia); “L’anima mia magnifica il Signore …” (Maria); “Fratelli, siate sempre lieti …” (San Paolo). Perché questo invito alla gioia? E’ presto detto: “il Signore è vicino!” Non nel senso che sia possibile geolocalizzarlo dietro l’angolo: “è vicino” perché viene al fianco di ogni uomo, si fa compagno di viaggio! Siamo esseri temporali che vivono nel tempo e hanno bisogno di tappe, scadenze, atmosfere … per questo la Liturgia, che è sempre protesa in avanti, verso la venuta del Signore nella gloria, a Natale ci offre uno sguardo all’indietro, per farci rivivere l’unicità della sua venuta nella carne. Arrivati alla culla del Bambino, l’incontro realizza l’attesa, l’eterno si fa presente, e la gioia anticipa il cammino che resta da fare!

Padre Turoldo denuncia una tipica vena di tristezza: “l’amaro riso degli angeli a Natale”. Certe persone a Natale sono tristi o perché sono sole, o perché sono sazie, o perché si aspettavano chissà che. Ci sono persone che non sopportano le feste e non vedono l’ora che passino, persone che decidono di essere infelici e si sentono in dovere di ricordare agli altri le loro miserie, anche in giorno di festa. Non incontrano il Bambino, sbagliano appuntamento. D’altro canto, ci sono persone seriamente provate dalla vita, che avrebbero seri motivi per piangere e lamentarsi, ma non lo fanno, affrontando le situazioni con fede e dignità, senza mettere agitazione negli altri.

Nel 1972, il Consiglio d’Europa adottò come inno europeo la cantata della Nona Sinfonia di Beethoven, che esprime un desiderio universale di fratellanza e felicità. Le parole di questo canto sono del grande poeta tedesco Schiller:

“Gioia, scintilla divina / Figlia dell’Elisio / Tutti gli uomini si sentono fratelli / Quando sono sfiorati dalla tua ala gentile / Ogni creatura succhia gioia / Dai seni della natura / Tutti inseguono il suo profumo / Anche il verme ha il suo piacere / Come i cherubini hanno Dio”.

Solo che ai distratti estimatori dell’inno è sfuggito un particolare troppo importante: la gioia di cui parla il poeta è una gioia riservata a pochi “eletti”:

“Chi è riuscito a stabilire un’amicizia duratura / Chi ha avuto in sorte una moglie fedele / Si unisca al nostro coro / Ma chi non ha nulla di tutto questo / Che si ritiri piangendo dal nostro cerchio”.

Ah !!! La gioia che si celebra in questa festa non è per tutti, ma solo per pochi privilegiati, quelli che hanno un buon vino da tracannare e una moglie morigerata da vantare in compagnia! Immaginiamo di fare anche noi la stessa cosa nella nostra comunità locale, paesana, cittadina. Da una parte mettiamo un coro composto da quelli che hanno amici fidati e mogli fedeli, che amano il buon vino e le feste. Dall’altro lato mettiamo tutti quanti gli altri: scontenti, infelici, musoni, sfigati e cornuti. Proviamo a farli cantare, vediamo che cosa ne esce. I primi hanno diritto alla gioia, i secondi no. Ma che discorso è? Eppure lo hanno scelto come inno per l’Europa unita! Lo insegnano nelle scuole, lo conoscono anche i ragazzini delle scuole medie! “Poooo, po-ro po-ro poppo poppo …” Ci vuole coraggio a cantare una roba simile, che discrimina gli esseri umani prendendoli per le corna, assimilando il piacere dei vermi alla gioia dei cherubini! Ce lo immaginiamo un verme “felice?” E felice di che, di stare nella cacca delle mucche?

Questa insolita commistione di “piacere e felicità” non è certo il massimo della poesia, la ritroveremo più tardi – in termini più seri – in psicologia, nei termini di “godimento” (che è cieco, sordo e muto come una scimmia) e “desiderio” (che è motore di crescita e di civiltà).

La gioia musicata da Beethoven, su libretto antidemocratico di Schiller, sintomaticamente adottata dal Consiglio d’Europa, tradisce un fondo pagano estraneo alla fede su cui si è costruita l’Europa. Si tratta di una gioia personificata a misura d’uomo, o divinizzata a statura d’idolo (che fa lo stesso). E’ facile localizzare lo scambio di binario: lì dove la Rivelazione dice: “Dio è Amore”, il paganesimo ribatte: “l’amore è dio” [una variante di questa impostazione vuole che: “l’amore è tutto”, ma non è vero che l’amore sia tutto]. Lì dove la fede dice: “Dio è Gioia”, gli incauti cultori dei piaceri sensuali ribattono: “la gioia è dio”. Ma si tratta di un abbaglio, di un feticcio di felicità, di uno squallido simulacro, di un volgare capriccio dei sensi. Chi cerca Dio trova la gioia, ma chi cerca la gioia non è detto che trovi Dio.

Molto diverso è l’invito alla gioia formulato dalla Liturgia: Isaia indirizza il lieto messaggio “ai miseri, ai cuori spezzati, agli schiavi, ai prigionieri!” Quelli che a prima vista sembravano i reietti, i diseredati che non hanno niente, gli emarginati della società, l’umanità scartata, in realtà sono i principali destinatari di questo messaggio di gioia. Meraviglioso!

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