Anno B – II per Annum (Gv 1, 35 – 42)
A cura di don Andrea De Vico
Al tempo di Samuele giovinetto, “la Parola del Signore era rara” e le visioni non erano frequenti. Egli svolgeva il servizio al Tempio, ma non era stato ancora informato sui rudimenti della fede: non conosceva il Signore. Una sera che il fanciullo era già a letto e la lampada non era ancora spenta, egli ode una voce. È Dio che chiama il fanciullo, ma lui crede che sia il vecchio sacerdote. Per altre due volte il ragazzo si sveglia nel cuore della notte e va dal sacerdote che lo rimanda a letto, pensando a un’immaginazione puerile. La terza volta Eli comincia a sospettare una visione, potrebbe alzarsi e verificare di persona, e invece no: “se ti senti chiamare, di’: parla, Signore, ché il tuo servo ti ascolta”. Un modo elegante per dire: “tu va’, e lasciami dormire in pace”. Il vecchio non vuol essere disturbato, eppure fornisce al giovinetto la “chiave” giusta per interpretare quella sua chiamata. Un “discernimento” che, malgrado la botta di sonno dell’anziano sacerdote, si rivela decisivo per il giovane Samuele. Queste parole sono diventate l’emblema di ogni futura vocazione: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta” (1 Sam 3, 9).
Già in precedenza Eli fu aspramente rimproverato dalla parola di uno sconosciuto per il modo con cui i suoi due giovani figli gestivano le offerte del Tempio. Per dirne una: quando qualcuno veniva a offrire un sacrificio, mentre la carne cuoceva presso l’altare, i figli di Eli si presentavano con un forchettone a tre punte, lo introducevano nella pentola e prendevano per sé tutto ciò che riuscivano a tirare su, lasciando il resto all’altare. Con il forchettone a tre punte si afferrano più pezzi che con quello normale a due. Una condotta “depravata e disonorevole”: essi “calpestavano” i sacrifici e “si pascevano” delle primizie destinate al Signore (1 Sam 2, 12-17). I due non ricusavano neanche il compromesso carnale, “giacendo” con le donne che erano a servizio all’ingresso della Tenda. La carne nella pentola, e la pentola della carne. Ed erano sacerdoti!
In quella notte, Samuele riceve dal Signore un terribile messaggio da riferire al suo maestro: “farò vendetta su di Eli, perché lui sapeva che i suoi figli disonoravano Dio, e non li ha puniti” (ivi, 13). Samuele non osa riferire una simile profezia, ma Eli vuole sapere: “Che discorso ti ha fatto? Non tenermi nascosto nulla. Dio agisca con te ancora peggio, se mi nasconderai una sola parola di quanto ti ha detto” (ivi, 17). Non c’è che dire, questo Eli è proprio una figura meschina: al fastidio della notte corrisponde l’insistente pedanteria del mattino dopo. Così, il giovinetto lo informa della brutta fine che lo aspetta: a novantotto anni, alla notizia della morte dei figli in battaglia, Eli avrà un soprassalto, cadrà all’indietro dal sedile, sbatterà la nuca e morirà. L’atteggiamento di Eli rappresenta l’incauta e vana curiosità di tutte quelle persone che tramite responsi o combinazioni di arti magiche vogliono conoscere il futuro che le riguarda: conviene? Samuele, divenuto adulto, ungerà Davide per regnare sulla nazione. Un’unzione che avrà il potere di consacrare la dinastia di Davide per i secoli a venire.
Perché la Parola era “rara” ai tempi di Samuele? Era Dio che non faceva sentire la sua voce, o era l’intermediazione dei sacerdoti come Eli e i figli che faceva difetto? Non vogliono essere disturbati, pensano solo agli affari amministrativi, ad affondare il forchettone nella pentola.
Si direbbe che anche oggi Dio taccia, e le vocazioni siano numericamente scarse, ma è rara la Parola, o si sono rarefatti gli ascoltatori? Cosa accade nel Tempio del Signore, dietro le quinte? Si è spenta la profezia, o sono certe discutibili qualità dei ministri dell’altare che fanno da schermo? I giovani ci sono, ma ci sono anche vocazioni stagionate che vogliono semplicemente essere lasciate in pace a dormire sui loro affari!
Il sacerdote, chiamato da Cristo e ordinato ai fratelli, non è un amministratore, non è un liturgo profumato d’incenso, un operatore sociale, uno psicologo, un musicista, un intenditore d’arte o un allegro animatore di eventi. Un prete così farà tanto rumore per quanto lavora, come sottofondo di gesti solo appariscenti ed esteriori. Il sacerdote di Cristo deve andare dove sono gli uomini, parlare ai cuori, gettare le reti, ripescare l’umanità perduta. Non è il gesto che fa il sacerdote, non è l’abito, non è la cultura, non sono le relazioni mondane, l’amicizia dei potenti o l’aspettativa di una promozione nei ranghi ecclesiastici. È l’anima che fa il sacerdote! Un’anima tanto grande da non mettere in conto nessun interesse, né spirituale né mondano! Lo spirito non ha bisogno di paramenti per rivelarsi, ma si mostra per quello che è: spirito, fiamma, amore che punta e parla dritto al cuore, con la castità degli sguardi, degli atti, delle parole, delle opere.
Un vero ministro di Cristo, inevitabilmente, attirerà l’attenzione degli altri. Uno che pensa solo agli affari materiali, alla presenza di un prete fatto a prete sarà costretto a riflettere: “questo qui è un uomo come me, ma ha qualcosa che non riesco a definire”. Se è un ateo miscredente, sarà costretto ad ammetterlo: “ci dev’essere Qualcuno, lassù”. Se è un degenerato morale, verrà pungolato da una nostalgia d’innocenza: “forse è il caso di rivedere la mia condotta”. Se è un avaro, potrà assumere una decisione nuova: “ho capito che devo liberarmi della roba inutile”. Se è un violento, verrà contagiato da un germe di pace. Al di là di tutte le qualità o le bravure personali che certo sono apprezzabili e non guastano, c’è una sola caratteristica che definisce il sacerdote di Cristo: la sua presenza. In altri tempi la chiamavano “santità”. Com’è che oggi non se ne parla più? È rara la Parola? Si sono diradati gli ascoltatori? O sono i sacerdoti che – come Eli – hanno bisogno di reimparare quel tocco di grazia che facilita l’incontro tra Dio e l’uomo?