Daniele Rocchi – È di pochi giorni fa la notizia dell’assegnazione a David Grossman del prestigioso Premio Israele per la Letteratura che viene assegnato dallo Stato alle personalità più influenti e rappresentative della società israeliana. “Dall’inizio degli anni ’80, Grossman è stato al centro della scena culturale israeliana. È una delle voci più profonde, commoventi e influenti della nostra letteratura”, si legge nella motivazione della commissione guidata dall’accademico Avner Holtzman. Tra i romanzi più famosi dello scrittore, che si batte per la pace nel suo Paese, “Qualcuno con cui correre”, “Che tu sia per me il coltello”, “Il giardino d’infanzia di Riki”, “A un cerbiatto somiglia il mio amore”, “Applausi a scena vuota”. Il Sir lo ha intervistato.
Che significato ha per lei questo riconoscimento che riceverà ufficialmente a Gerusalemme durante i festeggiamenti per i 70 anni dell’indipendenza dello Stato di Israele?
È un premio molto importante in Israele e ne sono davvero felice. Ritengo sia molto significativo per una persona con le mie idee, con un’opinione critica del governo e dell’occupazione che ho ormai da molti anni.
Ricevere questo premio significa dare voce a questa posizione. E alla luce del clima che oggi si respira in Israele, dove l’occupazione è sempre più legittimata, ricevere questo premio è un segnale molto incoraggiante.
Nei suoi libri lei affronta la questione del conflitto denunciando il clima di sospetto predominante tra israeliani e palestinesi che li allontana dal dialogo. La guerra permea così profondamente il rapporto tra le persone che pensare alla pace oggi è quasi impossibile. Di cosa hanno bisogno il popolo israeliano e quello palestinese per superare questa diffidenza reciproca?
È quasi inevitabile che due popoli in guerra tra loro, dove uno è l’occupante dell’altro da tanti anni, siano entrambi preda di sentimenti di ostilità e di sospetto reciproco e siano quindi governati dalla violenza. La situazione è tale che israeliani e palestinesi siano non solo vicendevolmente ostili ma anche terrorizzati gli uni dagli altri. Naturalmente non si può paragonare la potenza militare israeliana a quella palestinese, ma entrambi i popoli, per quanto differiscano in dimensione e potenza militare, riescono ad inasprirsi la vita a vicenda in modo detestabile e scellerato. Dopo tanti anni di ostilità tutti e due sono segnati da preoccupazione e paura e tutti e due sono vittime di esperienze traumatiche. Il popolo ebraico ha una storia tragica alle spalle, e anche i palestinesi hanno vissuto un trauma con la sconfitta della guerra del 1948 che costrinse molti di loro a fuggire dalla Terra d’Israele. Molti furono cacciati. Questo è un trauma che fa ormai parte del loro vissuto e della memoria collettiva di quel popolo. Nella maggioranza dei casi le persone guidate dalla paura non riescono a superare questa condizione, vedono il pericolo ovunque, vedono trappole ovunque, credono che la loro vita sia sempre sul filo del rasoio. È estremamente difficile rimuovere tutto questo dalla coscienza collettiva di una società e infondere speranza, parlare di nuove opportunità, di dare fiducia al nemico.
Da questo punto di vista mi pare che la politica non abbia fatto molti passi verso la ripresa del dialogo…
Se i leader israeliani e palestinesi fossero persone intelligenti e coraggiose forse assisteremmo all’inizio di un processo di pace. Ma ora non c’è nessun processo di pace in corso; è un concetto vuoto. La situazione è congelata e assistiamo ad atti di ostilità che non accennano a finire.
Se i leader di entrambe le parti fossero in grado di correre dei rischi calcolati facendosi carico della situazione, e al contempo infondere speranza – e non solamente paura e disperazione – al proprio popolo, allora, e solo in quel caso, se saremo fortunati, e se le potenze che sostengono la pace saranno più forti di quelle che la vogliono distruggere, potremo iniziare a pensare a un cambiamento
della situazione attuale che potrebbe condurre alla pace. Ma potrebbero volerci molti anni. È una situazione estremamente complicata.
Lei crede ancora nella soluzione “Due popoli, Due Stati” appoggiata dalla comunità internazionale?
Ne sono sempre stato un sostenitore. Qualsiasi altra soluzione è difficile da immaginare, in termini realistici. Si parla molto di un solo Stato bi-nazionale – israeliano e palestinese – È un’idea molto nobile, e mi creda, il mio desiderio è che tutti i popoli possano vivere senza confini e che tutta l’umanità possa ritrovarsi unita. Ma se guardiamo questi due popoli, la loro carica di odio, è difficile credere che dopo 120 anni di odio e di violenza saranno in grado di interagire in maniera efficiente e proficua all’interno di uno stesso Stato. Questi due popoli non sono neanche in grado di comportarsi come bravi cugini, come possiamo pensare che possano improvvisamente diventare gemelli siamesi? È impossibile. Una soluzione di questo genere richiede società estremamente mature dal punto di vista politico e temo che società come la nostra, come quella palestinese, plasmate nell’odio per tanti anni, siano incapaci di agire in termini politicamente maturi.
Come uscire fuori da questa situazione di stallo?
La prima cosa da fare è una separazione che dia allo Stato d’Israele tutte le garanzie possibili in termini di sicurezza per il futuro, e al popolo palestinese uno Stato sovrano. Il conflitto tra i due popoli non deve continuare, la guerra non farebbe altro che prolungare all’infinito il sospetto e i pregiudizi.
Vorrei che fossero separati da un confine normale, un confine come quello che esiste tra buoni vicini, con molte vie di passaggio che permettano glis cambi commerciali, culturali, di idee, di persone. Questo potrebbe essere l’inizio.
In seguito, passo dopo passo, potremo sviluppare insieme altri progetti, per esempio un parcheggio cogestito da israeliani e palestinesi, partite di calcio tra Israele e Palestina, orchestre come quella del direttore Daniel Baremboim, università coordinate dalle due parti dove studenti israeliani e palestinesi possano studiare insieme le origini del conflitto. E così tante altre iniziative nella vita di tutti i giorni, segni di normalità. Forse dopo tanti anni questi segni potranno svilupparsi in rapporti di buon vicinato.
Quella che sta tracciando è una visione profetica del futuro, un futuro migliore per i due popoli…
Se non siamo in grado di immaginare nulla significa che siamo vittime di questa situazione, che la situazione ha preso il sopravvento e che non siamo più in grado di agire in maniera libera.
Cosa pensa della decisione presidente Trump di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme riconoscendo di fatto la Città Santa come capitale di Israele?
Innanzitutto ci tengo a precisare una cosa:
Gerusalemme è la capitale di Israele, lo è stata per 3000 anni.
Nell’intero arco della loro diaspora gli ebrei hanno sempre pregato in direzione di Gerusalemme. Gerusalemme è sempre stata il fulcro della spiritualità del popolo ebraico. In Polonia mio nonno pregava tre volte al giorno in direzione di Gerusalemme.
Ma Gerusalemme è anche parte del conflitto.
Si tratta di una delle questioni più importanti che israeliani e palestinesi devono ancora discutere. Nessuna dichiarazione del presidente americano potrà mai cambiare la situazione. Trump può decidere ciò che vuole, può dire domani che tutti gli insediamenti debbono restare lì dove sono o che i palestinesi hanno il diritto al ritorno. Questo non cambierà la situazione. La situazione sarà decisa dopo molte discussioni e dolorose concessioni tra le parti al tavolo dei negoziati.
La guerra in Siria, in Iraq e Yemen, la crisi in Libia hanno marginalizzato il conflitto israelo-palestinese. Porre fine a questo conflitto può fermare anche gli altri in corso nell’area?
Non credo. Concordo però con la sua analisi: queste guerre hanno marginalizzato il nostro conflitto. Tuttavia è bene notare che quanto sta avvenendo in Siria, in Iraq, in Yemen e anche in Libano, è fortemente legato alla guerra interna tra sciiti e sunniti. È un conflitto di grandissima portata scoppiato molti secoli prima della nascita dello Stato d’Israele e naturalmente prima della Guerra dei Sei Giorni e dell’occupazione militare. Risolvere il conflitto israelo-palestinese non credo risolverà quello ben più ampio interno all’Islam.
Ritiene Israele uno Stato di apartheid?
Israele non è uno Stato di apartheid.
In Israele cittadini ebrei e cittadini israeliani palestinesi godono degli stessi diritti, non posso dire che l’attuazione di questi principi sia perfetta, ma Israele è una democrazia e chiunque ha la facoltà di criticare il Governo. Ci sono cittadini arabi israeliani che esprimono liberamente, anche con toni molto accesi, il loro antagonismo contro il governo israeliano, arabi e ebrei israeliani hanno la facoltà di sposarsi tra loro. Ma nei Territori Occupati la situazione è molto diversa: lì la situazione è in molti modi paragonabile a una situazione di apartheid. C’è una separazione di ruoli nel sistema giuridico con una chiara preferenza verso i coloni a danno dei palestinesi. Uno dei motivi fondamentali per i quali occorre fermare l’occupazione è quello di porre fine a questa realtà che potremmo definire ingiusta, quasi criminale.
A suo avviso, una certa politica israeliana che favorisce l’occupazione militare, l’estensione delle colonie, può fomentare l’antisemitismo?
Lei mi chiede se l’occupazione fomenta l’antisemitismo? Mi creda, sono un forte oppositore dell’occupazione, ma con altrettanta convinzione le dico che
non ci sono mai motivi reali alla base dell’antisemitismo,
e dell’antisemitismo diretto contro Israele. Occorre sempre fare molta attenzione a separare la legittima critica nei confronti di Israele e del suo governo e l’antisemitismo. L’antisemitismo non è altro che una manifestazione di odio verso Israele qualsiasi cosa faccia, e che ignora del tutto la complessità della situazione sul campo. Credo che non dovremmo prestare il fianco alla tentazione di alcune persone o religioni di diffondere sentimenti di antisemitismo.
Nell’Ue si respira un crescente clima di intolleranza, di xenofobia e di antisemitismo. La Polonia ha approvato una controversa legge che vieta di parlare di “campi di concentramento polacchi” e il suo premier, Morawiecki, ha sostenuto che durante la Shoah “ci furono colpevoli polacchi, così come ci furono colpevoli ebrei”…
Sono rimasto scioccato dalle ultime dichiarazioni del primo ministro polacco che ha paragonato i collaborazionisti polacchi con i collaborazionisti ebrei. È’ una visione della realtà terribilmente distorta. È vero, ci sono stati ebrei che hanno collaborato con i nazisti, ma lo hanno fatto perché erano costretti, minacciati a costo della loro stessa vita, della vita dei loro figli, la sopravvivenza delle loro stesse famiglie. Come si può paragonare tutto questo ai tanti polacchi che hanno collaborato con i nazisti di propria iniziativa, spesso in maniera entusiasta.
Stiamo assistendo alla diffusa volontà di eliminare la memoria della Shoah nel mondo perché è dolorosa, perché mette molti Paesi nella condizione di dover affrontare le proprie colpe.
Il Premier israeliano Netanyahu è stato accusato di corruzione. Questo potrebbe provocare cambiamenti politici nel Paese?
Dobbiamo aspettare i risultati dell’inchiesta. La polizia ha raccomandato la sua incriminazione e assistiamo a nuovi sviluppi e nuove accuse ogni giorno. In Israele, così come in altri Paesi, vige la presunzione di innocenza. Il primo ministro ha un fortissimo ascendente sulla società israeliana, è un esperto nel manipolare l’opinione pubblica: sa come gestire la paura che attanaglia la società israeliana, è un affabulatore e riesce a mischiare il pericolo reale che Israele si trova a dover affrontare ogni giorno con il retaggio di traumi passati. E noi israeliani che viviamo in una società fortemente traumatizzata, siamo totalmente impotenti davanti a queste strumentalizzazioni. Per misurare il talento del Primo ministro è sufficiente vedere cosa ha fatto finora: qui in Israele ci troviamo bloccati in un conflitto senza vie d’uscita e senza speranza da moltissimi anni.
Netanyahu è in carica da 12 anni, più del leggendario, quasi mitologico David Ben Gurion, primo ministro dello Stato d’Israele, alla guida del Paese per 11 anni. Ma se paragoniamo i successi ottenuti dai due leader vedremo che Netanyahu non ha fatto nulla su questo fronte, ci ha lasciati in una situazione di stallo.
Alcuni politici di destra mi ripetono spesso che non c’è soluzione a questo conflitto. Io dico loro che la situazione è estremamente complessa, ma se non facciamo nulla ora non potremo risolverla neanche in futuro. Ciò che faremo oggi determinerà la risoluzione del conflitto tra 10, forse 20 anni. Tutto quello che Netanyahu fa dimostra che non ha alcuna fiducia né intenzione di raggiungere la pace con i nostri vicini. Trascina la situazione senza fare nulla per alterarla. Oggi si è aperta una rara finestra di opportunità perché molti Paesi arabi – l’Egitto, la Giordania, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi – sono terrorizzati dalla crescita del potere sciita nella regione, in Iran, in Libano, e hanno bisogno di avere Israele come loro alleato. Si rendono conto che Israele può essere un alleato forte ed affidabile, e ora sono disponibili a fare concessioni, anche a impegnarsi per portare i palestinesi al tavolo dei negoziati. Ma finora non si registra alcun progresso, né da parte israeliana né da parte palestinese.
Secondo lei qual è il ruolo dei cristiani all’interno della società israeliana e, più in generale, nel Medio Oriente?
La presenza cristiana qui può avere un ruolo molto importante, agendo come mediatore tra musulmani ed ebrei.
Abbiamo fortemente bisogno di questa mediazione. Il cristianesimo è nato qui. Le minoranze cristiane presenti in Israele, in Palestina e in molti Paesi arabi testimoniano la grande importanza e il ruolo significativo delle loro comunità in questa area. Spero che le comunità cristiane in Italia e in altri Paesi siano attive in ambito spirituale ed educativo del conflitto facendosi, per esempio, promotrici di incontri di dialogo e conoscenza reciproca tra israeliani e palestinesi. Si demonizzano reciprocamente influenzati dai loro pregiudizi e stereotipi ma in realtà non si conoscono. Ma se ci fossero incontri tra filosofi, medici, avvocati, giornalisti di entrambe le parti, un dialogo aperto, senza barriere, in un posto neutrale, credo che sarebbe di grande aiuto per tutti noi.
Lei è autore di molti libri per ragazzi e per bambini. Nonostante il conflitto, le nuove generazioni sono ancora il futuro del popolo israeliano e palestinese?
Non si può crescere all’interno di un conflitto senza esserne influenzati. I giovani sono pesantemente condizionati da questa realtà sia in Israele che in Palestina, crescono in un clima di paura, di violenza. Molti di loro non vogliono continuare a vivere qui così se hanno la possibilità vanno via. È doloroso vedere i nostri giovani, israeliani e palestinesi, subire l’impatto di questa situazione.
La cultura, la letteratura, i libri possono favorire la soluzione pacifica del conflitto?
C’è qualcosa di speciale nella letteratura: essa si occupa sempre dell’individuo, lo pone al centro. Mentre in una situazione di guerra, l’essere umano della fazione nemica non esiste, non ha un volto: in guerra si cerca sempre di de-umanizzare l’altro.
La letteratura conferisce un ruolo fondamentale alla persona umana, a ogni persona, mostrando le infinite sfaccettature dell’individuo, e le infinite opzioni di ogni situazione che ci troviamo ad affrontare, mille strade che di dipanano a ogni svolta, a ogni bivio, non solo la strada della disperazione, della difficoltà, dell’apatia…
C’è qualcosa di molto intraprendente, innovativo, di creativo nello scrivere che va nella direzione contraria alla disperazione, al lutto, al fatalismo. La letteratura inoltre valorizza le sfumature: quando si è in mezzo a una guerra si tende ad aderire a dei cliché, a degli stereotipi. Ma quando si scrive la ricerca si addentra nelle complessità delle relazioni, nelle sfaccettature di ogni situazione, di ogni realtà dei rapporti umani.
La letteratura è uno strumento meraviglioso per recuperare il lato umano di cui il conflitto ci ha privati.
Da Agensir