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Utopia e Resurrezione. Una riflessione per “abitare” l’evento più bello

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Riflessione per la Pasqua 2018
A cura di don Andrea de Vico

Il mondo moderno ha volto le spalle al passato, ha demolito il concetto di autorità, ha elaborato magnifiche visioni di un futuro radioso. “Utopia” è un luogo che non c’è, ma ci sarà, grazie al progresso della scienza e della tecnica. Per creare il nuovo mondo, i pensatori moderni hanno ritenuto opportuno cancellare la tradizione culturale del passato, essenzialmente cristiana. Anche i rivoluzionari si sono accaniti contro i simboli della tradizione: i giacobini hanno distrutto innumerevoli tesori di architettura gotica, i bolscevichi migliaia di chiese ortodosse. Nell’architettura moderna scompaiono i riferimenti alle forme dei secoli precedenti. Rimangono nude geometrie funzionali, come sui biglietti della moneta unica europea. L’antica trascendenza divina è stata sostituita dall’aspettativa di un futuro utopico.

Se non che, questo futuro radioso non si è mai visto, le “sorti magnifiche e progressive” si sono arenate, e la tecno-scienza ha tradito le sue promesse: invece di portare il paradiso sulla terra, ha devastato l’ambiente e ha calpestato la vita umana. La ricerca scientifica “pura” è stata inquinata dai bassi interessi della ricerca “applicata” della produzione industriale. La vita è stata medicalizzata su tutti i fronti: salute riproduttiva a tutti i costi, maternità a tutti i costi, bimbi sani e belli a tutti i costi. Avendo tagliato i ponti con la tradizione, l’uomo occidentale ha finito financo col rinunciare a progettare il suo futuro. L’ “utopia” si trasforma in “distopia”: luogo brutto, invivibile, inabitabile, ecologicamente compromesso. Nasce una nuova categoria: siccome ancora non si sa che cosa sia, essendo appena cominciata, questa nuova epoca viene detta “post-moderna”.

Un celebre film che ci offre una visione distopica del mondo post-moderno è “Blade runner” (1982), dove è ben rappresentato l’incubo urbanistico di un prossimo futuro: enormi ciminiere che sprigionano fumi tossici verso un cielo scuro, grattacieli di un’altezza mostruosa, pioggia incessante che batte una città senza più sole e da cui è impossibile evadere … Le strade sono sovraffollate da un’umanità caotica che ha smarrito ogni legame di vita o di lingua comune. La società multiculturale, frammentata in tanti gruppi su base etnica, è diventata un inferno di solitudine e violenza.

Gli uomini hanno costruito dei robot per il loro servizio, i famosi “replicanti”, fatti a loro immagine e somiglianza, eccetto un piccolo “particolare”: sono programmati per vivere solo quattro anni, altrimenti prenderebbero il sopravvento, perfetti come sono. Il motto della società che li fabbrica suona così: “More human than human”, “Più umani degli umani”. Così fatti, è logico che i replicanti comincino ad avvertire il desiderio di vivere più a lungo, per essere del tutto uguali a chi li ha creati. Le parole che un replicante rivolge all’ingegnere che lo ha brevettato sono diventate un classico della critica cinematografica: Io ti chiedo più vita, padre. Ma l’ingegnere deve confessare alla sua creatura di non avere affatto il potere di donargli più vita. Il finale è di una disperazione struggente, vista l’impossibilità di avere “più vita”, emblema e carattere della civiltà post-moderna. Se l’uomo moderno sperava in un cambiamento del mondo, l’uomo post-moderno non si aspetta più niente: è l’epoca del nichilismo, la filosofia del nulla.

Certo, notiamo anche degli sparuti segnali di sensibilità nei confronti del passato: il restauro dei quadri, il recupero delle architetture, il luoghi restituiti alla fruizione comunitaria, una nuova funzione attribuita agli stessi. Ma siccome i nessi con la tradizione – che è cristiana – sono stati tagliati, quest’uomo non la sa più interpretare. Magari entra in Chiesa, mostra di ammirare le statue e gli affreschi, sarà pure un intenditore d’arte, ma non gli riesce di cogliere il cuore della tradizione, che è la fede.

Inoltre, a motivo della globalizzazione, quest’uomo entra in contatto con le tradizioni di altre civiltà, ma se non capisce la sua, figuriamoci se riesce a cogliere il valore delle altre. Allora le mette tutto sullo stesso piano, in maniera acritica, come la canzonetta che quest’anno ha vinto a Sanremo, dove ci sono due voci delicate di giovanotti che si cimentano in un esorcismo contro i mostri del terrore: “E chi prega sui tappeti / Le chiese e le moschee / Limàm e tutti i preti / Ingressi separati della stessa casa”. Capito? chiesa o moschea fa lo stesso, tanto è tutto uguale, seguendo il dettato del nichilismo post-moderno! Siccome tutto è uguale, niente vale niente. La totale ignoranza della propria tradizione si risolve in una mancata comprensione della tradizione altrui. Il classico tubo che non capisce l’idraulico che lo ha messo in opera.

Se nell’antica tradizione della fede troviamo la disponibilità al servizio divino, l’uomo moderno si afferma davanti a Dio con un secco “non serviam”, “non servirò”, di ascendenza luciferina. Dal non-servizio alla manipolazione della realtà il passo è breve: l’uomo viene dislocato in un “usurum esse”, in un “essere per usare”. Da custode della creazione qual era, ne diventa l’usuraio. Lo sviluppo urbano caotico e disordinato è una manifestazione speculare della manipolazione della vita.

Ma non è questa la vita che volevamo. Solo il vero Padre può dare “più vita” alle sue creature. Si tratta di quella “vita in più” promessa da Gesù: Lui è venuto per darci la vita in abbondanza, vita divina, vita risorta, la sua! La Resurrezione di Cristo è una vera e propria “Eutopia”: un luogo bello e degno di essere abitato!

Liberamente ispirata a Giovanna Jacob, in:“Tempi”, 7 maggio 2015

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