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Dies Dominica, commento al Vangelo della II Domenica di Pasqua

Se trattiamo la domenica come un banale “fine settimana”, quello che doveva essere il giorno di un “nuovo inizio” finisce per esprimere la frustrazione del criceto che gira a vuoto in una gabbia

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A cura di don Andrea De Vico
Anno B – II Domenica di Pasqua (Gv 20, 19-31)

“La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: ‘Pace a voi!’ … Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa … venne Gesù …”

Tutto è successo tutto nel giro di pochi giorni: l’ingresso trionfale in città, la cattura nella notte, il processo ingiusto, la via dolorosa, la morte ignominiosa e una sepoltura in tutta fretta. Poi il silenzio della tomba e la difficile ricomposizione del gruppo. Una giornataccia: i discepoli passano il resto del tempo chiusi dentro, sono Galilei e forestieri in Gerusalemme, temono ulteriori rappresaglie da parte di chi aveva fatto uccidere Gesù. Finalmente, la sera di quello stesso giorno, viene il Risorto, recando il duplice augurio di pace e una grande gioia!
La scena si ripete esattamente otto giorni dopo, sempre chiusi in casa, sempre intimiditi, medesimo indirizzo di pace, uguale invito a riprendere fiducia. Le annotazioni cronologiche sono preziose: nell’uno e nell’altro caso, Gesù appare “il primo giorno dopo il sabato”, il primo della settimana, il giorno di un “nuovo inizio”. D’ora in avanti i discepoli prenderanno l’abitudine di riunirsi proprio in questo giorno, che verrà chiamato “dies dominica” (Domenica), “giorno del Signore” (Dominus), destinato a sostituire il sabato giudaico.
L’antica istituzione rituale del sabato si spiega per la necessità di garantire ai poveri (e alle bestie da soma) un giorno di riposo a settimana, per evitare che fossero costretti a lavorare una vita intera senza interruzione. Il riposo sabbatico è stata la prima conquista sindacale dell’umanità. Oggi il sabato comporta il nervosismo della vigilia e delle promesse sproporzionate. Ci si prepara all’impatto con gli altri, in un ristorante, in una sala da ballo o in una stanza da letto, ma quante promesse tradite! Uomini che tradiscono perché hanno paura di invecchiare, donne che tradiscono perché sognano di essere affrancate da qualcosa di più nobile di un uomo senza più sale né pepe, ridotto a tutto calcio e pantofole. Anni fa tradivano solo gli attori, poi sono arrivati i divorzi e gli avvocati. Uomini e donne si sono alzati in piedi e hanno gridato insieme: tradiamo, tanto è lo stesso, non c’è più niente da salvare che abbia il pregio dell’eternità. Balliamo e cantiamo senza più pensieri su questa nave che sempre affonda, facciamo quello che c’è da fare, tanto, ormai.
Due giovani si sposano e si promettono fedeltà. Il futuro è tinto di rosa, poi l’entusiasmo dei primi tempi si raffredda, le difese vengono meno. Cominciano le discussioni, i rimproveri reciproci, perdono la pace, non hanno più nulla da dirsi, diventano estranei, manifestano sentimenti di ostilità, infine è guerra aperta! In Chiesa succede lo stesso. All’inizio le persone sono contente, amano cantare nel coro, partecipano alle attività del catechismo, dell’oratorio o dell’azione cattolica… Poi si stancano, le cose non corrispondono più alle loro aspettative, hanno la paura infondata di essere scalzate da altri che sanno fare meglio di loro, non si lasciano più coinvolgere, si disaffezionano, se ne vanno, se la prendono con gli altri, col prete, col vescovo… cominciano a dire in giro il loro disappunto, a sfogare la loro rabbia e, per un inutile sussulto di onnipotenza vendicativa, a pubblicare articoli deliranti di fanta giornalismo… Le persone che agiscono in questo modo, oltre che a perdere il potere della parola che comprende e pacifica, che chiarisce e pianifica, vengono sovrastate da un magnifico super-io che le affligge coi sensi di colpa e i complessi di inferiorità, piombando ben presto in una visione nevrotica della vita. Questa situazione implica la responsabilità dei soggetti: non ci sono giustificazioni, con la scusa di una personalità malata, perché a monte di tutto questo ci sono delle scelte che si fanno da “sani”, e che poi si trasformano in manifestazioni nevrotiche.
La domenica è il giorno giusto per azzerare tutto questo, e ricominciare daccapo. Gesù in persona ci fornisce la parola di cui abbiamo bisogno per riconoscere queste miserie e ritrovare la fiducia del ricominciare. Ma se trattiamo la domenica come un banale “fine settimana”, quello che doveva essere il giorno di un “nuovo inizio” finisce per esprimere la frustrazione del criceto che gira a vuoto in una gabbia. Tante volte la domenica pomeriggio le persone non sanno nemmeno cosa fare: meno male che c’è il centro commerciale, la partita di calcio o la corsa di formula uno, altrimenti si sentirebbero perse! Se utilizziamo la domenica come un ripostiglio per le cose più disparate – recuperare lo studio, il lavoro arretrato, il sonno perduto, o per smaltire la sbornia dei sensi – il rapporto con il tempo ne esce sballato, disturbato, malato. Chi tratta la domenica in questo modo, solitamente odia il lunedì, lo dice, e ricomincia la nuova settimana come se avesse ricevuto una botta in fronte. La gente viene presa dal vortice della settimana al punto da dimenticare quel che vale di più. Dov’è finita “la serenità del giorno dopo?” .
E pensare che certi preti si lamentano delle Chiese sempre più vuote, una frustrazione che finisce per paralizzare anche quei pochi coraggiosi che sono rimasti. Quelli che vanno ancora in Chiesa lo fanno col sentimento dei sopravvissuti, come gli apostoli quella sera chiusi nel Cenacolo. In realtà il vero problema non è: “perché la gente non viene a Messa?” Ma: “perché la vita vale così poco?”. Le nostre assemblee non richiedono grandi platee, perché “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Quando Gesù entra tra di noi, viene su una pace che tende a espandersi e a raggiungere gli altri, la famiglia, le amicizie, la comunità locale, il mondo!

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