A cura di don Andrea De Vico
Anno B – IV Domenica di Pasqua (Gv 10, 11-18)
“Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore”.
La figura del pastore sembra anacronistica, ma è di una tenerezza unica. È una splendida immagine del passato: l’attuale progresso sarebbe impensabile senza l’apporto millenario della civiltà pastorale. I pastori hanno aperto i paesaggi all’agricoltura, le loro transumanze hanno preparato la via dei futuri commerci, hanno preceduto la civiltà contadina, borghese e industriale. Siccome la civiltà moderna si è massificata, appiattita, globalizzata, e tutto è venale, tutto si compra e tutto si vende, ci sono certi nostalgici del passato che sognano di mettersi in testa a quattro pecore e portarle al pascolo, pensando di recuperare la libertà perduta, la calma degli spazi aperti, i sentimenti distesi. Ma si tratta di una banale idealizzazione della vita pastorale, pur sempre costellata di sacrifici e dure prove. I pochi pastori rimasti andrebbero protetti non come se fossero una specie in estinzione, ma per il ruolo che svolgono e le particolari conoscenze che custodiscono.
I ragazzi di oggi vanno a scuola ma non hanno mai visto una pecora, se non nella pubblicità, magari color fucsia. Il termine “pecora” viene usato come simbolo di stupidaggine e di conformismo, e il dispregiativo “pecorone” viene riferito a “uno che non capisce nulla”. A nessuno piace pensare di essere una “pecora” che faccia parte di un “gregge”, sarebbe un’offesa alla sua dignità, eppure basta una nuova moda, un tacco più alto, un diverso taglio di capelli o un paio di pantaloni sbracati, che tutti si allineano all’ultima novità. Difatti, uno dei tratti salienti della nostra società è la “massificazione”: mangiamo quel che ci dicono di mangiare, parliamo come li sentiamo parlare, vestiamo come si vestono loro. Questa non è libertà, è bieco conformismo. Non sono meglio le pecore? D’altro canto, il mito della modernità nasce con l’esplicito tentativo di liberare l’uomo da ogni sorta di gerarchia e autorità, compresa quella divina, ma… è possibile che possa esserci un “gregge” senza un “pastore” che lo guidi e lo tenga unito? Non accade piuttosto che l’umano gregge finisca alla mercé di uno spietato mercenario che lo sfrutta, poi lo disperde?
In realtà, l’arte pastorale è il contrario della globalizzazione, il gregge del Signore è quello che esce fuori dalla massa, e una vera pecorella di questo gregge vestito di bianco non è per niente conformista. Gesù non ha detto di essere un re, un principe, un presidente o un capopopolo, ma: “io sono il buon pastore”, uno che conosce le sue pecore una ad una, le chiama per nome, apre loro la strada e le difende, ed esse lo seguono volentieri, si sentono al sicuro, compagne di vita e di viaggio, e lo ricambiano con latte e la lana, onore, nutrimento e abbigliamento.
Tuttavia è anche vero che ci sono pecore che non sanno andare oltre il ruolo che il pastore rappresenta, e lo trattano come se fosse un funzionario. Fanno gli scongiuri quando un prete entra in casa, gli chiedono una “benedizione speciale” per una maggior fortuna, scherzano sui pronostici di salute dei loro congiunti, si sentono in dovere di mettere la mano al portafoglio quando porta la comunione ai malati, o fanno celebrare una Messa chiedendo: “quant’è?” A questa gente piace trattare Dio alla maniera dei mercanti: “io do una cosa a te, e tu dai una cosa a me”. Nella mente di questi pecoroni la pratica della gratuità non è compresa, non è prevista, perché impegna. Se io ricevo da Dio una cosa “gratis”, è chiaro che dovrò fare lo stesso con il prossimo. Ma siccome alla maggioranza delle persone non piace sentirsi in dovere con nessuno, il Dio della grazia non è capito: è meglio una religione del dare per avere, così stiamo pari, è più facile.
Dal punto di vista del “pastore d’anime”, la comunità non è mai quella ideale, e il gregge è costituito in buona parte da pecorelle deboli, difettose, inferme, ferite, rozze, sviate, perdute, ma il vero pastore non si ferma qui per questo, non di adatta a vivere in un angolo di mondo che si è ritagliato a proprio uso e consumo, ma fa come Gesù, si mette per strada alla ricerca! Coltivando l’amore e l’unità interiore, il vero pastore crea il presupposto per l’unità di tutto un popolo. Se il prete è frustrato o schizofrenico, è logico che col tempo i parrocchiani gli ricambiano le cortesie e diventano più schizzati di lui. Quando un prete si lamenta dei suoi parrocchiani, c’è da mettere la mano sul fuoco che all’origine del suo malcontento c’è sempre un particolare interesse mai sufficientemente ripagato. Al buon pastore non sono richieste umane abilità, ma santità di vita. In prima battuta, il prete non deve mettersi a fare il poeta, il musicista, l’intenditore d’arte, lo psicologo, il dirigente, l’organizzatore o il mediatore socio-culturale: queste cose devono essere lasciate ai laici. Il buon pastore deve semplicemente “stare accanto”, conoscere ciascuno con sana attenzione, con atteggiamento di vigilanza, il bastone in mano per difendere la fede, e il vincastro dolce per incoraggiare le pecorelle inappetenti. Mai preti di mestiere o mercenari a pagamento, ma con il cuore di Gesù, “pastore accanto!”