Home Attualità La morte di Aldo Moro. L’inizio della fine della politica in Italia?

La morte di Aldo Moro. L’inizio della fine della politica in Italia?

Alla cronaca dei fatti si affianca una amara lettura sull'esito della Politica italiana, da allora ad oggi. Una riflessione che oggi tocca da vicino i cittadini italiani e si impone alle coscienze

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Antonio Filippelli – Da quel drammatico 9 maggio 1978 sono trascorsi quarant’anni. Aldo Moro, Presidente della Democrazia Cristiana, veniva trovato morto nel bagagliaio di una renault 4, in via Caetani, a Roma, proprio a metà strada tra piazza del Gesù, dove si trovava l’allora sede della DC, e via delle Botteghe Oscure, quartier generale del PCI.

Numerosi i punti interrogativi emersi e ancora insoluti, nonostante vari processi e due commissioni parlamentari d’inchiesta che hanno provato a far luce sugli aspetti più oscuri dell’Italia dell’epoca.

Ma oggi, considerando soprattutto lo scenario politico attuale, è doveroso soffermarsi sulla figura del Politico Aldo Moro, cercando di trarne preziosi insegnamenti.

Com’è noto, Aldo Moro, nei mesi precedenti al suo rapimento da parte delle Brigate Rosse, stava ricoprendo un ruolo da assoluto protagonista nella complicata fase politica venutasi a creare all’indomani delle elezioni del 20 giugno 1976. Era l’artefice di una complessa, ma ambiziosa, costruzione politica: un accordo tra la sua DC e il PCI che, insieme, avevano raccolto – badate bene –  il 73 per cento dei voti degli elettori. In quel momento ci si trovava di fronte ad un bivio: una contrapposizione frontale tra i due partiti “vincitori”, o tentare la strada più ardua, più sottile, del confronto. Moro, aiutato dal suo sguardo lungimirante e da una rara sensibilità nel percepire ed intercettare la realtà italiana dell’epoca, non aveva dubbi sulla strada da percorrere. In quei mesi cercava di indicarla al suo partito, invitava i suoi amici della DC a guardare fuori dal Palazzo, all’emergenza italiana. In un suo discorso, tenuto davanti ai suoi colleghi di partito, affermava: “[…] Io credo all’emergenza, io temo l’emergenza. […]. Credo che tutti dovremmo essere preoccupati di certe possibili forme di impazienza e di rabbia, che potrebbero scatenarsi nel contesto sociale. C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente, con alcune punte acute. Il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, il rifiuto del vincolo, la deformazione della libertà che non sa accettare né vincoli né solidarietà. Immaginate […] se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo…” 

Il Presidente della DC, come un abile equilibrista, camminava su un filo. Conosceva perfettamente le difficoltà nel maneggiare una democrazia complessa come la nostra, gli ostacoli per governare un Paese come il nostro. “Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili” credo sia la definizione più drammaticamente acuta del nostro Paese, dell’Italia, in grado di racchiudere la sua faziosità politica e la debolezza dello Stato.

Con pazienza, con il dialogo, con la sua capacità di persuadere, di rimuovere obiezioni, di parlare anche all’ultimo dei suoi oppositori riconoscendolo come interlocutore, Aldo Moro, in un momento così delicato della vita politica italiana, convinceva la DC a dare un faticoso via libera alla nuova maggioranza con il PCI. Per la prima volta, dopo il 1947, Moro riportava il Partito comunista italiano a votare la fiducia ad un governo: un esecutivo tutto democristiano, un monocolore targato Giulio Andreotti. Purtroppo, come ben sappiamo, il 16 marzo 1978, il giorno della fiducia al nuovo Governo, Moro non riuscirà a mettere piede nell’aula di Montecitorio per assistere alla concretizzazione di quella sua operazione, di quel suo capolavoro politico.

La storia politica dell’On. Aldo Moro non può certamente condensarsi in questa sua – purtroppo ultima – brillante operazione di compromesso. In realtà, quest’ultimo sforzo, rappresenta l’ennesimo indice della sua statura politica, dello statista di cui l’Italia ha potuto beneficiare. Un uomo capace, fin dall’Assemblea Costituente, di costruire ponti e non muri, di preferire l’intesa alla contrapposizione, di aver come primario obiettivo l’interesse nazionale e non quello personale e/o di partito. Pur nella sua intransigente moralità cercava di dialogare con tutti, anche con i suoi più accaniti oppositori; cercava sempre di comprendere l’altro punto di vista, reputandolo altrettanto importante.

Oggi, a quarant’anni dalla sua uccisione, Aldo Moro è più attuale che mai. Oggi, ad un passo dall’ultimo atto di una vera e propria catastrofe istituzionale, ad un passo dal serio rischio che, per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, non parta la legislatura, ci accorgiamo di quanto fossero importanti gli strumenti di continua ricerca del dialogo di Moro. Oggi, più che mai, ci rendiamo conto che Aldo Moro, già quarant’anni fa, più che trovare la soluzione per risolvere una crisi tra partiti, esperiva un tentativo volto a risolvere la crisi di un sistema istituzionale logoro, sofferente.

Quel 9 maggio del 1978 si è spenta una luce e, per molti, è una data che coincide con l’inizio della fine della politica in Italia.

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