A cura di don Andrea De Vico
Anno B – Ascensione (Mc 16, 15-20)
“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1, 9-11)
Gesù sale “in cielo” lasciando gli apostoli stupefatti sulla terra: son dovuti intervenire due angeli per smuoverli dal loro stato di torpore contemplativo e richiamarli alle responsabilità mondane. I primi cristiani, sulla scia dell’odierna esperienza apostolica, non pregavano più in direzione di Gerusalemme, come facevano gli ebrei sparsi per il mondo, ma dicevano: “Maranathà, vieni, Signore Gesù”, volgendosi verso il luogo da cui il Signore sarebbe tornato, il cielo, l’oriente, il sole nascente. La direzione della Preghiera diede origine a quelle controversie che portarono alla definitiva separazione del Cristianesimo dall’Ebraismo. Il concetto è semplice: la nuova fede cristiana si svincola dalla centralità dell’Altare ebraico coi suoi riti di sangue, e la nuova Preghiera Liturgica venne “deviata” in direzione del Signore che viene. La sua persona sostituisce l’Altare, declassato a semplice supporto per le offerte del pane e del vino.
Poi si cominciarono a costruire le Chiese. Gli edifici ideali per il nuovo culto furono pensati come una “nave” a forma di “croce” per significare che, per avere salvezza nell’oceano burrascoso del mondo (e nel mare del web) ci viene offerta la scialuppa del “lignum crucis”, una “nave della croce”, e “orientare” il viaggio dell’Assemblea cristiana verso l’“approdo” definitivo del Signore che viene! La Liturgia lo sottolinea sempre, con vigore: siamo qui “nell’attesa della sua venuta!”
A partire dal 1700, quando i lumi della ragione intesero sostituirsi a quelli della fede, nel mondo cattolico ci fu una sorta di illuminismo casereccio, per cui si cominciò a pensare che il culto divino dovesse “servire” all’edificazione dell’individuo e della società. Siccome la cultura moderna nacque con l’intento di staccare l’uomo da Dio, la teologia del tempo si preoccupò di legittimare la Liturgia mettendone in evidenza il suo ruolo “funzionale”. La venuta del Signore passò in second’ordine, a favore dell’attenzione prestata al popolo, e il culto cominciò ad essere circoscritto in un orizzonte umanistico. Dopo l’ultimo Concilio ne venne fuori la fantastica idea – che non sta scritta da nessuna parte – che il celebrante, durante le sue “funzioni”, dovesse restare costantemente rivolto al popolo. È successo che certi preti sessantotteschi, per la smania di mostrare la loro faccia alla gente, abbiano letteralmente massacrato antichi e pregevoli altari. Ultimamente ci sono state Chiese e cappelle progettate per facilitare le relazioni sociali di un cerchio di amici che si incontrano, ma è sbagliato, ci sono altri contesti per fare questo.
Così, con la svolta illuministica, la comunità smarrisce il senso della meta, e finisce per chiudersi in un “dialogo” con sé stessa. La Liturgia si è afflosciata, arenata. I preti, invece di rivolgersi fisicamente e intimamente a Dio, sono diventati dei narcisisti teologici. Si sono messi davanti alla gente mettendo in evidenza le loro facce scure o da simpaticoni, con le loro frustrazioni o le loro teorie. In realtà non è la comunità il centro dell’esercizio cultuale, ma è Dio, è a Lui che ci si rivolge! Strano che un prete dica la Preghiera Eucaristica con le parole rivolte a Dio e la mimica verso il popolo. Stando all’orientamento della Preghiera, sia l’Assemblea che il Presidente “sono rivolti al Signore”. Le espressioni “rivolti al popolo” o “con le spalle al popolo”, se per la mentalità illuminista significano qualcosa, per la teologia e la liturgia non hanno nessun senso. Se in un primo momento – la Liturgia della Parola – la posizione frontale tra lettori-celebranti e il resto dell’Assemblea è giustificata dal fatto che si tratta della Parola di Dio che scende verso il popolo, in un secondo momento – la Preghiera Eucaristica – “è cosa buona e giusta” che tutta l’Assemblea, a partire da chi la presiede, rivolga il cuore (e il corpo) in direzione dell’Interlocutore divino.
L’Altare non deve dunque chiudere lo spazio ecclesiale in un cerchio, come quello di Stonehenge, o un tempio di massonica fraternità, o quell’assurda chiesa nuova di Padre Pio, ma lo apre alla Liturgia eterna. Per Benedetto XVI l’Altare è “il luogo del cielo squarciato”, è fatto per “aprire il cielo”, non per chiuderlo, per cui è più sensato celebrare a un Altare esistente addossato alla parete, che inventarsene a tutti i costi uno nuovo nel medesimo presbiterio, quasi a sbarrare o a fare da scoglio tra umanesimo e trascendenza.
In ogni caso, seppure ci applicassimo allo studio di tutte le chiese e le liturgie antiche, non troveremo mai una definizione assoluta della posizione dell’Altare e del celebrante, nella Liturgia cattolica. Questo significa che il prete non ha mai una posizione definita, e neanche deve trattare l’Assemblea come se fosse un uditorio che sta li per pendere dalle sue labbra. Il celebrante consapevole del suo ministero si sente un “decentrato”, un “fuori posto”, uno “spostato”, perché in realtà al centro di tutto quello che fa non c’è lui, ma c’è la persona del Signore che viene, e quel posto mistericamente vuoto – in capo alla comunità – sarà finalmente occupato da Lui. Da quando Cristo è risorto, l’asse del mondo si è spostato dalla solida concretezza delle religioni naturali (cerchi magici, statue che si toccano, altari intrisi di sangue, ecc.) al cammino instabile della storia e della fede. L’Altare non serve più per i sacrifici animali, ha perso l’importanza che aveva, tuttavia è stato riqualificato come simbolo della persona di Cristo: il sacrificio l’ha fatto Lui una volta per tutte. Nello spirito della Preghiera liturgica, la vecchia “centralità” dell’Altare si è trasferita in direzione della “periferia”, che poi è il luogo che rende possibile il ritorno di Cristo.
Nel momento in cui veniamo in Chiesa a celebrare i santi misteri, cercando la solida “sicurezza” del centro, in realtà vi troviamo gli angeli dell’Ascensione che vengono a dare una scossa al nostro torpore e, come hanno fatto con gli Apostoli, ci indirizzano alla città terrena, ai nostri impegni storici, pratici, concreti. Avendo nella preghiera affrettato la venuta il Signore, non possiamo starcene con le mani in mano, ma ne deriva un preciso compito di umanità. Non per nulla la “Messa” si chiama “Messa”: è un palese invito alla missione, formulato dagli Angeli dell’Ascensione!