A cura di don Andrea De Vico
Anno B – Pentecoste (Gv 15, 26-27; 16, 12-15)
“La folla rimase turbata perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua, e dicevano: Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi li sente parlare nella propria lingua nativa?” (At 2, 6-8)
Nel racconto biblico (prima lettura della vigilia), “tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole” (Gen 11, 1). Tutti si capivano, si parlavano, commerciavano, prosperavano, si ingrandivano. Ad un certo punto però, forti del loro successo, gli uomini vollero “farsi un nome”, oggi diremmo un “brand”, un “marchio”, sfidando la grandezza divina, costruendo una Trump Tower che arrivasse fino al cielo, per scalare l’aria e diventare essi stessi delle divinità. Ma il Signore confuse i loro progetti, al punto che gli uomini non si capirono più, si bisticciarono e si dispersero. La torre di Babele, lasciata a metà come lo scheletro di un’opera pubblica, divenne simbolo di confusione e dispersione. Quando gli uomini si industriano per costruire un mondo a misura delle loro ambizioni, i loro progetti falliscono. La confusione che ne deriva non è la ripicca di un dio sadico che mortifica l’uomo, ma è un argine per impedire che si facciano ancora del male, è una lezione alla loro superbia. Difatti la confusione è il premio dei superbi, da sempre. E per vedere l’incompiutezza di un’opera simile non c’è bisogno di andare in Mesopotamia: ce l’abbiamo sotto i piedi, in oratorio. Questo accade anche nella mia storia personale: nel momento in cui il mio “io” si erge come una torre per imporsi sugli altri, ne resto confuso, dissociato, schizzato, depresso.
Nel racconto degli Atti (prima lettura del giorno), questo stato di confusione viene superato il “cinquantesimo” giorno di Pasqua, a “Pentecoste”, appunto. Qui avviene il contrario di Babele: ci sono folle di gente che parlano lingue diverse ma che intendono lo stesso messaggio! Presi dallo Spirito Santo, gli uomini non penseranno più a “farsi un nome”, succubi di una volontà di potenza che finirebbe per confonderli, ma daranno unicamente gloria al nome di Dio, riconoscendo l’ordine della creazione – e non della produzione – alla base della convivenza civile.
Ezechiele (prima lettura alternativa della vigilia) si trova una piana di ossa inaridite, luogo che rappresenta la triste situazione di Israele a Babilonia. Un popolo in esilio è come un popolo di scheletri. Un cadavere spolpato dai vermi non sente, non vede, non ama. Questa valle degli scheletri fa pensare a un mondo senza comunicazione, senza amore, senza relazione. Gioele (altra prima lettura alternativa della vigilia) profetizza un futuro in cui le persone, per capirsi, non avranno più bisogno né di voce, né di lingua, né di altri strumenti tecnologici, perché nei loro cuori ci sarà lo stesso Spirito del Signore!
Viviamo un’epoca di cosiddetta “comunicazione di massa”, ma il più delle volte si tratta solo di una “massa di comunicazioni”. La vera amicizia viene confusa con i rapporti superficiali. Si tende a collezionare un cumulo di nuovi “amici” in rete per mostrarsi socialmente più attraenti e pubblicitariamente appetibili: per farsi un nome! Il mondo del web, nel film “Matrix”, è stato rappresentato da un’infinita pioggia di caratteri verdi (il colore dei cadaveri che trasudano) che aprono voragini e scavano valli, formando le surreali pianure della non-comunicazione viste da Ezechiele. Quella rete che doveva connettere le persone ha finito per isolarle, come è accaduto con la televisione, che da “finestra aperta sul mondo” quale nacque nel ‘54, divenne prima “cattiva maestra”, e poi un “contenitore vuoto”, come la vediamo ai nostri giorni. Nascono nuove forme di alienazione, di confusione, nuove Babilonie che schiacciano le vere professionalità e promuovono dei personaggi fatui che non consistono in niente.
I nuovi strumenti tecnologici hanno grandi potenzialità, sono un “vero dono per l’umanità” (Papa Benedetto). Sono un’estensione del linguaggio umano, da usare con realismo e con fiducia. Il desiderio di comunicazione e di amicizia è parte di noi, è una cosa che risponde alla chiamata di Dio, che vuol fare degli uomini una sola famiglia. Dobbiamo semplicemente stare attenti a non appiattire l’esperienza dell’amicizia, riducendola a una rappresentazione bi-dimensionale, a scapito dello spessore dell’amicizia vera. Tutto dipende dall’uso che ne facciamo, o dall’ambiguità del nome che ci vogliamo fare, e da quel che esce dalla nostra lingua, che poi ė il primo strumento di comunicazione, non di massa, ma personale. Un mezzo rimane sempre un mezzo, l’importante è che non diventi un fine, o un tormentone commerciale. La persona deve restare al centro di tutto. La vera relazione, la vera comunicazione, è dello Spirito.
Di qui il mio impegno profetico: richiamare nel cuore la potenza dello Spirito, per rimettere più vita dove ormai non ce n’era più, negli strumenti mediatici come nelle relazioni reali! Non devo limitarmi all’utopia del mondo che verrà, ma devo costruirlo fin da adesso, questo mondo, esercitandomi a comunicare con gli altri, nello Spirito! Se faccio spazio allo Spirito di Gesù, egli mi farà da guida a “tutta la verità”, e il mio “io” diventerà catena e crocevia di relazioni solidali e costruttive!