A cura di don Andrea De Vico
Anno B – Corpus Domini (Mc 14, 12-16; 22-26)
“Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: ‘Prendete, questo è il mio corpo’ ”
Il classico inno “Adoro te devote” canta così: “O Gesù ti adoro, Ostia candida / Sotto un vel di pane, nutri l’anima … / Quando questa carne si dissolverà / Il tuo viso, Luce, si disvelerà”. Con L’Eucarestia ci troviamo davanti a qualcosa di “velato”, destinato ad essere “svelato”. Anche nella lontana antichità esisteva una dea velata, rappresentata da una famosa statua del tempio greco di Efeso. La dea era Artemide, Iside per gli egiziani, Diana per i romani. Noi la identifichiamo nel termine di Natura. L’idolo di Artemide era “di legno nero, rivestito di gioielli, con la parte inferiore del corpo racchiusa in una stretta guaina: figura enigmatica e curiosa, che emerge direttamente dalla preistoria”. C’era un’iscrizione che accompagnava la statua: “Nessun mortale ha sollevato il mio velo”. Ai musei vaticani abbiamo una copia romana della statua efesina di Artemide dai molti seni che nutre tutti gli esseri viventi. Con l’avvento del cristianesimo, le immagini di Artemide furono scalzate da una concorrente di estrazione popolare: la Vergine Maria. Infatti il primo dogma mariano di Madre di Dio fu proclamato proprio a Efeso, nel 431.
Tra l’antico culto pagano e i nuovi usi cristiani c’è una discontinuità, ma ci sono anche delle analogie. Se nella processione di una festa popolare al posto della Madonna delle Grazie mettessimo Proserpina, o al posto di un Sant’Antonio mettessimo Apollo, non è che cambierebbe un gran che. Faremmo le medesime cose coi medesimi intenti, nulla di male. Il punto di rottura è un altro: con il cristianesimo la dea Natura perde gli attributi divini. Il Sole non è più un dio, ma una semplice palla di fuoco; la Natura non è più una dea, ma una semplice creatura, e non ha veli (non è sacra, non è divina), anzi, è essa stessa un velo, sollevato il quale appare il volto di Colui che l’ha creata. Quando nel nostro linguaggio usiamo espressioni del tipo: “la nuda verità”, noi esprimiamo questa stessa idea di “svelamento”.
Sono stati fatti degli esperimenti psicologici sulle spiagge frequentate dai nudisti. Ci si è accorti di quel che già si sapeva: i corpi nudi, in assenza di supporti tessili, sono meno interessanti. Anche per la pubblicità è così: il nudo-nudo non ha valore commerciale. Un corpo nudo non offre informazioni sullo status o la cultura di una Venere a passeggio o di un Adone di passaggio. D’altro canto, in presenza di una nudità integrale, la psiche stessa elabora spontaneamente un diverso codice del pudore, misurando la direzione, l’intensità e la durata degli sguardi, non necessariamente “peccaminosi”. Ma nel momento in cui un corpo si presenta con l’addobbo di un velo o una sottoveste, l’immaginazione si risveglia, il panorama diventa più spendibile, le strategie di seduzione e di conquista si rimettono in movimento. Il “velo” dunque ha una duplice funzione: quella “nascondere”, e quella di “mostrare” al tempo stesso, la Divinità, la Natura, l’Eros, risvegliando l’anelito, il desiderio, l’appetito.
Ma non tutti sono degni, o hanno il titolo necessario, o la delicatezza sufficiente, per sollevare il velo. Nel caso di una sposa questa operazione tocca allo sposo, a lui solo, è ovvio. Nel caso della Natura, la “tortura” degli esperimenti nucleari o genetici producono qualcosa di artificiale e mortifero, mettendo a repentaglio la vita umana stessa. La Natura violentata si ritorce contro il suo attentatore, basta vedere i disastri e le alluvioni scatenate dai cambiamenti climatici. Solo uno sguardo disinteressato e limpido può rimuovere il velo senza fare danni, e scoprire le grazie di una donna, o i segreti della Natura, o i misteri divini, che è lo stesso.
Nel discorso notturno tra Gesù e Nicodemo si parlava di questo, di una “rinascita” dall’alto, una nuova nascita, un nuovo modo di intendere la necessità della Natura. Non nel senso di un “ritorno alle origini”, come ingenuamente obietta Nicodemo, visto che un uomo quando è vecchio non può più entrare nel seno di sua madre e rinascere, ma in direzione del “compimento” di ciò che siamo stati chiamati a diventare, con la vita risorta. Questo avverrà il giorno della “ri-velazione”, quello della nostra morte personale, “quando questa carne si dissolverà”.
L’Eucarestia, mistero della fede per eccellenza, è un “vel di pane”, una misura piccola ma dalla forza gigantesca, tale da rimuovere i peccati e trasmettere la vita nuova! È incredibile constatare come le grandi cose e gli eventi decisivi dipendano da misure estremamente esigue. In un campionato di Formula Uno bastano tre millisecondi per fare la differenza tra una stupida vittoria e un’onorata sconfitta, e muovere un flusso immenso di denaro in un senso piuttosto che in un altro. Nel mondo vegetale, una quercia maestosa ha avuto il suo inizio in un semino che neppure si vedeva. La storia intera di un uomo, unica e irripetibile, dipende da un embrione che ha trovato le condizioni favorevoli alla vita e un’amorosa accoglienza da parte dei genitori.
Così nella vita destinata alla resurrezione: tutto si decide a partire da un po’ d’acqua, una goccia d’olio, un pezzo di pane, un sorso di vino … I sacramenti materialmente sono piccoli, modesti, ma hanno la potenza dell’embrione, la capacità di trasmettere la vita divina! Nella Chiesa antica, al momento della comunione, il diacono avverte: “Chi è santo si accosti, chi non lo è, si penta!” È una questione di dignità. Non ci si può accostare all’Eucarestia con il cuore in tumulto e gonfio di passionalità colpevolmente alimentate. Sotto un vel di pane, l’umanità! Sotto il velo della carne che noi siamo, la divinità!