Home Antropos Bamboccioni? Sì, ma non solo i giovani, anche gli adulti

Bamboccioni? Sì, ma non solo i giovani, anche gli adulti

Traendo ispirazione dal film "Young Adult" di Jason Reitman, una riflessione sull'adulterazione dell'adulto, la "regressione a una immaturità testarda"

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Il film americano intitolato “Young Adult” di Jason Reitman sembra darci – già solo nel titolo – la temperatura della strana febbre che sta colpendo il cosiddetto mondo degli adulti. Il fenomeno è accecante nella sua evidenza: gli adulti si sono persi. In questo film la loro scomparsa viene celebrata come un miraggio di rigenerazione; l’adulterazione dell’adulto consisterebbe nella sua regressione ad una immaturità testarda, al recupero (impossibile) del tempo passato, ad un rifiuto della responsabilità. La trama è eloquente: una ex scrittrice divorziata ritorna nel suo paesino del Minnesota per riprendere il suo fidanzatino del liceo che nel frattempo si è sposato e ha un figlio, senza tener conto in nessun modo della irreversibilità del tempo.

Cosa sta accadendo? Se un adulto è qualcuno che prova assumere le conseguenze dei suoi atti e delle sue parole – è una definizione che mi sento di proporre al di là della sua descrizione anagrafica – non possiamo che constatare un forte declino della sua presenza nella nostra società. Pensiamo a tutti coloro che investiti di incarichi istituzionali perseguono accanitamente i loro interessi personali anziché servire quelli comuni. Alle figure di Puer che spesso ci hanno governato e che sono diventati dei modelli per l’immaginario. Oppure a quei genitori che, anziché sostenersi tra loro nel compito educativo che li impegna, lo disertano, mostrandosi sempre pronti a difendere le ragioni inconsistenti dei loro figli di fronte agli insegnanti o di fronte alle prime difficoltà che la vita impone. Gli adulti sembrano essersi persi nello stesso mare dove si perdono i loro figli, senza più alcuna distinzione generazionale. La celebre distinzione tra le età della vita che in passato bollava come immaturi anche quei comportamenti che manifestavano semplicemente lo slancio vitale della giovinezza, oggi è saltata: possiamo vestirci a 60 anni come a 30, sognare le stesse cose, consumare gli stessi prodotti, parlare quasi la stessa lingua. A questo appiattimento delle differenze generazionali contribuisce anche un certo uso dei social network, dove i legami che si creano sono spesso a responsabilità zero. L’amicizia è ottenuta attraverso un click; la sua moltiplicazione diviene segno di distinzione. La cultura del videogame ci introduce in un mondo parallelo, artefatto, ad una sorta di oppiaceo tecnologico che confonde l’esistenza con la simulazione. Non è difficile incontrare adulti che come certi adolescenti si mantengono in uno stato di perenne “connessione” con la Rete. Senza questa connessione la loro vita perderebbe di senso. Per loro la disconnessione – anziché essere una pausa necessaria e salutare – rivela il vuoto di una vita sostenuta da legami artificiali. Questo nuovo ritratto dell’adulto esalta il mito immortale di Peter Pan, il mito della giovinezza perenne, la retorica di un culto dell’immaturità che propone una felicità spensierata e priva di ogni responsabilità. È una cifra del nostro tempo: “Mio padre – mi confidava desolata una giovane ragazza figlia di genitori separati – non fa altro che correre dietro alle mie amiche e poi chiede di potersi confidare con me!”. Insomma, non è che i veri bamboccioni siano gli adulti di oggi più che i loro figli.

Gli esempi potrebbero essere tanti e diversi ma essi convergono tutti a sottolineare un fatto: la solitudine delle nuove generazioni deriva innanzitutto dalla difficoltà che gli adulti hanno nel sostenere il loro ruolo educativo. Una giovane paziente mi ha aiutato a intendere meglio quello che ci sta accadendo. Mi racconta della sua tendenza irresistibile a rubare nei supermercati. I suoi furti non ruotano attorno al valore di ciò che ruba di cui si disfa subito e con totale indifferenza. Questa giovane non sta semplicemente frodando la Legge o godendo del brivido per la sua trasgressione. In un modo paradossale sta facendo proprio il contrario; sta cercando di essere vista, di essere notata dalla Legge, cioè di fare esistere una Legge. Qualcuno mi vede? Qualcuno mi può aiutare a non perdermi, a non smarrirmi? Esiste da qualche parte una Legge, o, più semplicemente, un adulto che può rispondermi, che può accorgersi della mia esistenza? La domanda dei nostri giovani insiste e ci mette con le spalle al muro: esistete ancora? Esistono ancora degli adulti? Esiste ancora qualcuno che sappia assumersi responsabilmente il peso della propria parola e dei propri atti? Nella cleptomania di questa ragazza possiamo cogliere tutta la cifra del disagio della giovinezza contemporaneo. Al centro non è più il conflitto tra le generazioni, il conflitto tra la Legge e la sua sovversione trasgressiva, ma la solitudine di una generazione che si sente lasciata cadere, abbandonata, che cerca il confronto con il mondo degli adulti ma non lo trova, nel senso che fa fatica a trovare degli adulti coi quali misurare il proprio progetto di mondo.

La grande crisi attuale dell’economia capitalista e il rischio reale di un immiserimento materiale e mentale di noi tutti amplifica e rende questo dato ancora più decisivo. Quale mondo stiamo consegnando in eredità alle nuove generazioni? Cosa possiamo fare per ridare speranza a un figlio affranto? Come possiamo mostrare alla giovane cleptomane che esiste una legge affidabile, uno sguardo capace di vedere e di riconoscere la sua esistenza? Qualcuno in grado di leggere nella sua trasgressione l’insistenza di una domanda di riconoscimento? Non è questo, in fondo, che ci chiedono i nostri figli? Se il luogo dell’adulto resta vuoto, sarà difficile per le nuove generazioni sentirsi riconosciute, sarà difficile potersi sentire davvero figli. Figli di chi? Di quale genitore, di quale adulto? Di quale testimonianza di vita? L’adulto non è tenuto ad incarnare nessun modello di perfezione. Anzi tra i suoi esemplari peggiori dobbiamo proprio catalogare quelli che si offrono come modelli ideali agli occhi dei giovani. L’esperienza clinica ce lo insegna ogni giorno. Ad un adulto non si deve chiedere di rappresentare l’ideale di una vita compiuta, ma di dare peso alla propria parola, il che significa innanzitutto provare ad assumerne tutte le sue conseguenze. Non è questo che può salvare dalla solitudine e dall’abbandono? Non è questo che anima la speranza dei ragazzi? Questo nel nostro tempo manca inesorabilmente e questo bisognerebbe poter ricostruire individualmente e collettivamente.

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