Il giudizio di Freud sull’amore era disincantato. Quando si crede di amare un altro in realtà si ama sempre se stessi, si ama la nostra immagine ideale che vediamo riflessa nell’amato o nell’amata. L’innamoramento potenzia il nostro Io, lo accresce; amare è innanzitutto amarsi, trovare nell’altro uno specchio che enfatizza i nostri tratti idealizzati. Per questo, Freud diffidava dell’amore cristiano per il prossimo; nell’amore umano non vi sarebbe alcun altruismo, ma solo l’esigenza di affermare narcisisticamente il nostro Io attraverso l’altro. Di qui, per esempio, la sua lettura del fenomeno della gelosia maschile che non sarebbe affatto nutrito dalla paura di perdere l’oggetto amato, ma dalla proiezione sull’oggetto della sua gelosia delle forti spinte al tradimento che invece gli appartengono inconsciamente (o consciamente).
Ci sono però amori che fanno vacillare la saggezza del cinismo freudiano. Sono amori dove in primo piano non troviamo l’altro ridotto a specchio narcisistico dell’Io, ma l’incontro con una esteriorità, con l’eteros che viene amato per quello che è – nel suo reale differente – e non per la sua funzione di supporto del mio io ideale. Sono quegli amori che rispettano la distanza, che si nutrono dell’incontro con la differenza, che sanno vivere l’esposizione rischiosa nei confronti dell’altro con generosità e coraggio. Sono amori rari – Albert Camus, filosofo del ‘900 ci lascia poche possibilità quando dice che di amori così ne esistevano due o tre in un secolo e uno era il suo -, ma esistono e spesso, come dimostra l’esperienza dell’analisi, non sono i primi amori di una vita, ma amori che si raggiungono solo attraverso altre esperienze meno felici e talvolta traumatiche.
Questo non significa che tali amori siano al riparo dalla rottura, dalla fine o dal rischio del tradimento. Anche perché diversamente dagli amori narcisistici che vivono nel rispecchiamento simbiotico che annulla la differenza e che trasformano il legame in cemento armato, questi amori si sostengono sulla solitudine reciproca degli amanti, sulla scelta di stare insieme più che sul bisogno coatto di esorcizzare la paura della solitudine. Sono amori che hanno segnato una vita, generato passione capace di durare nel tempo, figli, famiglia, responsabilità, condiviso memorie, esperienze, entusiasmi, progetti, dolori, gioie. Si tratta di legami che non si sono esauriti nell’estasi fuggevole dell’innamoramento narcisistico, ma che sono stati in grado di mantenere un intenso e unico legame erotico nel tempo, di dare dignità alla promessa che unisce tutti gli amanti: “Sarà per sempre!”. Ora, cosa accade in questi legami quando uno dei due tradisce, viene meno alla promessa, vive un’altra esperienza affettiva nel segreto e nello spergiuro? Cosa accade se il traditore chiede poi perdono? Chiede di essere ancora amato, vuole che tutto sia come prima? È insomma possibile l’esperienza del perdono quando la promessa è stata infranta dal tradimento? Ci dobbiamo limitare ad evocare la sentenza freudiana “ogni amore è un sogno narcisistico, non esiste promessa, non esiste amore per sempre”? Dobbiamo forse sputare sull’amore? Riconoscere semplicemente che la spinta egoistica dell’essere umano prima o poi lo corrode? Oppure l’esperienza del tradimento può diventare – come talvolta diventa – un’occasione per provare a fare un passo al di fuori dalle sabbie mobili del narcisismo?
L’orgoglio narcisistico tenderebbe a rendere impossibile il perdono, ma proprio per questo nulla come l’esperienza del perdono – quando davvero avviene – mostra il limite della visione freudiana dell’amore come accecamento narcisistico. Non è forse nel perdono che incontriamo, intatta e spigolosa, tutta la differenza, l’eteros, dell’altro? Non è forse “perdonare l’imperdonabile” – come si esprimeva Derrida – il gesto più radicale dell’amore? Per questo, perdonare per un uomo può risultare assai più difficile che per una donna. Perché per un uomo riconoscere la libertà dell’altro- che è anche libertà dell’errore e del tradimento – va in una direzione contraria rispetto alla passione fallica dell’avere che solitamente anima la sua vita: la libertà dell’altro mette in crisi il fantasma di appropriazione, manifesta il limite del potere e, dunque, costringe a confrontarsi con la ferita aperta della propria castrazione (inteso come senso del limite). E per un uomo prendere contatto con la propria castrazione è assai più difficile, più arduo, più traumatico. Per questo, solitamente, l’orgoglio fallico maschile si oppone all’atto del perdono facendo barriera al riconoscimento della propria vulnerabilità.
Al perdono subentra piuttosto la rivendicazione rabbiosa di giustizia, quando non la violenza cieca o, più semplicemente, il rifiuto stizzito dell’altro. Eppure esiste una gioia misteriosa del perdono che alleggerisce gli amanti che la raggiungono dal peso dello spirito di vendetta. Questa gioia comporta il riconoscimento dell’altro come eteros, come vita differente, vita lontana da ogni illusione simbiotico-narcisistica, comporta l’ amore per un altro reale, non-ideale, non lo specchio che illumina il nostro Ego, ma una esistenza singolare che può essere talvolta anche deludente, umana troppo umana, ma che non per questo amiamo meno. Nell’esperienza che l’analisi raccoglie troviamo frequentemente che in questi amori il dolore più grande abita chi ha tradito la promessa, chi ha esposto al rischio di distruzione una vita insieme. Una mia paziente, per esempio, raccontava straziata una breve avventura con un uomo che aveva “agito” solo per riavere l’attenzione del proprio amato marito troppo impegnato ad inseguire la sua affermazione professionale. Rocambolescamente questa relazione clandestina era stata scoperta dal marito che aveva poi deciso di perdonarla riconoscendo innanzitutto che in questo “agito” era implicata anche una sua responsabilità, ovvero quella di aver fatto sentire la propria compagna in una posizione marginale nella sua vita. Ebbene, questa donna continuava a non perdonarsi per quello che aveva fatto nonostante il perdono del marito. Non solo per le menzogne e il tradimento della fiducia. In gioco, in realtà, era il suo rapporto intimo con il proprio desiderio. Come se l’accesso al perdono dovesse avvenire in primo luogo per se stessa, per avere tradito se stessa, per non essere stata all’altezza del suo desiderio più autentico come talvolta capita a noi umani. Prima di essere degna di perdono dell’altro doveva perdonare se stessa per aver tradito non tanto il marito, ma il suo desiderio più profondo, l’amore di una vita.