Cristiana Dobner – Attendere significa essere mobili, plastici, pronti a scattare perché si è colto un qualche avvertimento su cui riflettere, una spia di allarme che scuote dal torpore interiore. Non per autorassicurarci e trovare il posto al sole che renda la vita gradevole e facile. Insieme, invece, con uno sguardo percettivo alle difficoltà, ai bisogni altrui. Soprattutto a quelli nascosti, velati dalla dignità che non espone la propria ristrettezza ma tenta di uscirne con tutte le forze, a quel bisogno primordiale e irrinunciabile di ciascuno e di ciascuna ad essere ascoltati, compresi. Il grido Marana Thà, non è solo il filo conduttore ma quello che innerva e sensibilizza, immergersi nell’atmosfera che genera diventa grembo fertile che può accogliere Colui che viene per tutti ed ognuno
Una sola parola potrebbe essere sottesa al tempo dell’attesa: Marana thà, Vieni Signore!
Ogni attesa che coinvolge l’animo umano e la sua intera vita comporta aspettativa, interrogativi, forse anche ansie ed incognite.
Si tratta, purtroppo, e forse anche troppo spesso, di proiezioni di desideri inespressi che conferiscono alla nostra esistenza un sapore che consente o di procede oppure di crollare miserevolmente.
Il tempo di attesa che ci propone la Chiesa quale reazione suscita in noi?
Se si comincia con l’osservare le strade addobbate e illuminate, dove viene condotto il pensiero e l’immaginario? Colori, fantasmagorie… indubbiamente vogliono suggerire una festa che si sta avvicinando.
Le vetrine dei negozi pullulano di oggetti, anche desiderabili, che non possono non attirare e magnetizzare verso uno shopping incontrollabile.
Anche i profumi degli abeti risveglia ricordi sopiti oppure desta a nuove esperienze per caratterizzare il tempo che viene in modo inedito.
Fin qui, indubbiamente niente di male. Quanto di bene però si riscontra in se stessi?
Il sovraccarico è eccessivo, depistante. Un accumulo che, con lo stile tipico della nostra epoca, snatura i significati nel loro profondo rivestendoli diversamente e così accalappiando chi si lascia accalappiare…
Il Dio che si fa Uomo in un bambino diventa Babbo Natale che scende con le sue renne e la sua slitta, un Babbo gelo che porta doni e tanta confusione.
La Parola evangelica è sepolta. Non muore però, non getta la spugna ed esala l’ultimo respiro. Attende e pulsa nel profondo, lasciando ampia libertà alle persone.
Trapassa Babbo Gelo, Babbo Natale, serpeggia nei biglietti augurali di buone feste di… stagione ed ancora attende.
Non festeggiamo un dio, magari potente che dobbiamo ingraziarci. Siamo pronti, ovvero ci stiamo preparando, ad accogliere il mistero di salvezza che ci giunge in una veste semplice, quotidiana. Se sempre la nascita di un essere umano porta gioia e inneggia all’esistenza, alla forza dell’eros che è data alla natura umana, a maggior ragione lo è quando questa forza riconosce il suo Creatore che la penetra tanto da farla propria, tanto da diventare carne proprio come noi.
Allora non vanno buttati o ignorati, addobbi, luminarie, insegne colorate e strenne ma vanno collocati al loro giusto posto.
La liturgia scandisce ogni giorno l’attesa dei profeti, l’attesa del Messia che porterà luce e salvezza. Non solo ma che sarà Luce e Salvatore.
Il Messia che incontra ciascuno e ciascuna nella sua storia, in quella vicenda che, fin dalla nascita, si è intramata in noi in modo indelebile.
Ne consegue che il grido che può trapassarci è lo stesso che, da secoli e secoli, da quando l’Altissimo pronunciò il Suo Nome nel Roveto ardente a Mosè e il popolo d’Israele lo accolse e lo fece suo, trapassa ogni persona che si apra e accolga Colui che viene.
Dimora in noi, silente ma operante. Sopporta gli addobbi e forse si rallegra della fantasia umana che diventa segno di accoglienza gioiosa, di espressione festosa per il mistero che preme per travolgere la storia dell’umanità ed imprimerle quella svolta che rendere tutti fratelli e sorelle con lo sguardo a chi, con noi, percorre lo stesso cammino.
Attendere significa essere mobili, plastici, pronti a scattare perché si è colto un qualche avvertimento su cui riflettere, una spia di allarme che scuote dal torpore interiore.
Non per autorassicurarci e trovare il posto al sole che renda la vita gradevole e facile.
Insieme, invece, con uno sguardo percettivo alle difficoltà, ai bisogni altrui. Soprattutto a quelli nascosti, velati dalla dignità che non espone la propria ristrettezza ma tenta di uscirne con tutte le forze, a quel bisogno primordiale e irrinunciabile di ciascuno e di ciascuna ad essere ascoltati, compresi.
Il grido Marana Thà, non è solo il filo conduttore ma quello che innerva e sensibilizza, immergersi nell’atmosfera che genera diventa grembo fertile che può accogliere Colui che viene per tutti ed ognuno.
Fonte Agensir