Francesca Costantino – Vedrei benissimo don Bosco tra i ragazzi dei nostri giorni. Saprebbe sicuramente come captare i loro desideri e le loro paure. Poi penso che in fondo c’è, esiste, è presenza. Vive in quanti lavorano ogni giorno seguendo i suoi insegnamenti e precetti, che un po’ ha lasciato per iscritto, un po’ ha plasmato nelle azioni dei suoi operatori salesiani. È quanto ci racconta Fabio Geda, scrittore ed insegnante torinese, intrecciando meravigliosamente la sua esperienza di allievo ed educatore a quella prodigiosa e sacra di Giovanni Bosco, testimone fedele di progetti d’amore pragmatici e fecondi.
Don Bosco opera nella Torino dell’Ottocento, analfabeta e povera, traboccante di ragazzi senza futuro, ultimi in tutto e affamati. Per loro inventa alternative coraggiose, fatte di scuole, laboratori, divertimenti. È il primo a concepire e promuovere un contratto di apprendistato, una cassa di risparmi e una collana di libri semplificata. Attraverso la nascita capillare di oratori salesiani e la diffusione di operatori motivati, l’insegnamento di don Bosco si moltiplica e mira sempre a prevenire prima di dover curare. Alla base c’è sempre l’ascolto meticoloso delle esigenze e caratteristiche dell’altro, c’è l’umanità.
Le storie di Fabio, invece, vivono i nostri tempi ostili, quelli dell’accoglienza e della formazione. Sono storie di uomini di buona volontà, discepoli di don Bosco, che tentano faticosamente di ascoltare ed integrare il dolore di quanti hanno già perso tutto e sperano di sopravvivere alla loro dignità.
Dal libro ho sottolineato alcune parole dell’autore, che trascrivo, in conclusione, nella speranza d’infondere la voglia di leggerlo tutto d’un fiato, come è successo a me. “Una volta don Bosco scrisse che il demonio ha paura della gente allegra. Per me […] il demonio è la resa. Arrendersi alla retorica dell’odio e del nemico. Arrendersi all’idea che il mercato abbia ragione e non si possa immaginare un sistema di ridistribuzione del reddito che metta tutti nella condizione di vivere dignitosamente. Arrendersi all’euforia della trasformazione tecnologica senza chiedersi se siamo noi a gestire la trasformazione o è la trasformazione a gestire noi. Arrendersi a quelle famose passioni tristi.”