M. Chiara Biagioni
Giornalisti ed esperti in comunicazione di tutta Europa si sono dati appuntamento dal 10 al 12 aprile a Helsinki e Stoccolma per contrastare quella rete sempre più fitta di disinformazione, falsità, messaggi di odio che stanno scuotendo le fondamenta stesse dell’Europa viaggiando sui poco controllati canali dei social media. È la Wacc Europa (Associazioni mondiale per la comunicazione cristiana) ad aver promosso l’iniziativa insieme alla Conferenza delle Chiese europee (Kek) e la Chiesa evangelica luterana di Finlandia per una tre giorni di confronto tra esperti sul fenomeno con l’obiettivo di rispondere alla domanda (che dà il titolo all’evento) “Cosa ci rende così arrabbiati? Discorsi d’odio, notizie false e diritti dell’informazione”.
I contenuti delle “falsità” cambiano da Paese a Paese a seconda delle diverse sensibilità e i casi di disinformazione risentono ovviamente delle aree geografiche e delle particolari situazioni politiche. Ci sono stati focus su Russia, Ungheria, Finlandia. Si è addirittura parlato dei messaggi di odio che sono arrivati a Eva Brunne, vescovo di Stoccolma (della Chiesa di Svezia) semplicemente perché vescovo-donna.
Impossibile – spiega al Sir Stephen Brown, presidente Wacc Europa – stilare una classifica dei Paesi più a rischio di bugie e disinformazione perché ogni Paese ha la sua situazione particolare.
In Germania, per esempio, forte è il tentativo politico di colpire l’opinione pubblica sulla questione dei rifugiati. Nel Regno Unito, in questo periodo prevale la questione della Brexit. In Paesi come Ungheria e Polonia fanno molta presa i discorsi contro l’Unione europea rimproverandole soprattutto la sua presunta volontà di imporre linee e regole. Ma c’è anche la Francia con il fenomeno dei gilet gialli che, pur essendo molto eterogeneo al suo interno, è purtroppo cavalcato da alcuni, sfruttando il malcontento delle persone.
Dietro all’odio sul web, c’è una profonda insoddisfazione che serpeggia in Europa. E le ragioni anche qui sono diverse. “Viviamo in un sistema economico che pur viaggiando relativamente bene a livello macro, sta causando forti ineguaglianze”, dice Stephen Brown. “Gli europei inoltre stanno facendo fatica a riconoscersi in società sempre più plurali, abitate da persone provenienti da Paesi diversi e appartenenti a culture e stili di vita totalmente differenti da quelli di sempre”. Se i casi sono diversi, osserva Brown, l’obiettivo finale è comune: “Cavalcare le insoddisfazioni delle persone per diffondere messaggi in grado di destabilizzare gli attuali ordini politici nazionali, colpire le relazioni tra gli Stati, diffondere uno stato di confusione”. Dal punto di vista mediatico, contrastare questo fenomeno non è facile: le “fake news” sono sempre messaggi “credibili”, fanno presa sui sentimenti delle persone, sono facilmente accessibili perché viaggiano sui canali social, sono costruiti su paradigmi intellettuali estremamente semplificati e viaggiano a velocità sostenuta, visto che basta un semplice click per rilanciarle.
Non è la prima volta che la Wacc Europa studia il fenomeno. Due anni fa pubblicò una ricerca sul racconto mediatico del fenomeno rifugiati e migranti in Europa, prendendo in esame per tre giorni i profili Twitter di giornali, quotidiani online e alcune agenzie stampa di 7 Paesi europei (Grecia, Italia, Spagna, Serbia, Regno Unito, Svezia e Norvegia). Emerse una informazione dominata da sensazionalismo e spettacolarizzazione. Ma soprattutto una informazione astratta e anonima:
solo nel 21% dei casi si dà un volto al migrante o rifugiato favorendo così – si legge nel Report – una netta separazione tra le misure discusse a livello politico e gli effetti reali che queste politiche hanno sulla vita delle persone.
Quale strategie implementare per contrastare il fenomeno? Brown preferisce parlare di azioni a più livelli. Da parte sua la Wacc ha lanciato un progetto di un anno sempre incentrato su rifugiati e migranti e sui messaggi di incitamento all’odio che navigano sul più vasto mondo dei social. L’azione di contrasto deve partire dai “principi della buona comunicazione, fondati sui valori della non-violenza e sul rispetto della dignità umana”, coinvolgere “i poteri pubblici perché attuino sistemi di controllo operando tra libertà e responsabilità di parola”; raggiungere le persone educandole a saper distinguere la buona informazione dalla cattiva informazione e a verificare in maniera critica le notizie prima di rilanciarle nel web.
Fonte Agensir
Purtroppo più che una questione di valori è una questione di valore poiché ormai, soprattutto sul web, il sensazionalismo è divenuto un “must” per chi guadagna con il mercato di questi pseudo-siti di news… E per quel poco di visibilità passeggera inventerebbero qualsiasi cosa.