La lezione, e le contraddizioni, del grande concerto-evento di Woodstock a cinquant’anni dai tre giorni “che cambiarono il mondo”. Un momento in cui si incontrarono le diverse anime di un movimento non uniforme, ma unito dal desiderio di uscire fuori dal buco nero della guerra in Vietnam, del rischio atomico e di una società sempre più robotizzata e guidata dal di fuori
Marco Testi – Avrebbero dovuto essere non più di 50mila persone, in quel posticino vicino il villaggio di Bethel nello stato di New York, per un evento costruito all’inizio come un investimento puramente commerciale e che invece divenne l’icona di un’intera, anzi, di diverse generazioni.
Perché qualcuno dice, ma non sono fonti ufficiali, che ci siano stati, a settanta chilometri circa da Woodstock, più di un milione di persone venute da ogni dove per quei tre giorni, dal 15 al 18 agosto del 1969,
quando si esibirono i più grandi artisti della scena rock, folk, blues e progressiva del tempo, da Jimi Hendrix ad Arlo Guthrie, da Joan Baez a Santana (con uno dei primi assoli di batteria della scena rock in “Soul sacrifice”), dai Canned Heat a Janis Joplin, passando per i frenetici, mai fermi Sly & the Family Stone, sempre al limite tra blues, dance, musica africana.
E poi il country rock dei Creedence Clearwater Revival, la demolizione degli strumenti musicali degli Who, i Jefferson Airplane con le loro canzoni utopiche e la loro adesione al mondo della psichedelia e purtroppo del consumo di lsd, e poi l’icona del festival, la beatlesiana “With a little help from my friends” cantata dalla voce ruggente di un Joe Cocker che mimava l’atto di suonare la chitarra, anzi, il basso. E poi l’assolo – il più lungo della storia live del rock-blues – di chitarra elettrica, la mitica Gibson di Alvin Lee, con i Ten Years After, in “I’m going home”, uno scatenato rock-blues che trascinò con sé tutto e tutti, e la Band, che aveva suonato con Bob Dylan, e uno dei primi “supergruppi”, Crosby, Stills, Nash & Young con il loro singolare impasto di suoni medioevaleggianti, rock durissimo, chitarre distorte e voci angeliche.
Certo Woodstock non fu il solo evento-cardine, c’era già stato due anni prima Monterey, un altro grande concerto che aveva riunito grandi musicisti e folle di giovani alla ricerca di un modo diverso di vivere, oltre che di fare musica.
A Woodstock però si incontrarono le diverse anime di quel movimento non uniforme che era unito dal desiderio di uscire fuori dal buco nero della guerra in Vietnam, del rischio atomico e di una società sempre più robotizzata e guidata dal di fuori.
Non è un caso che i modelli letterari di quegli anni fossero l’Huxley di “Il mondo nuovo”, una profezia “distopica” su un futuro automatizzato e programmato dall’inizio alla fine, o l’Orwell di “1984”, visione terribile della società massificata, scritto però nell’insospettabile 1949. Certo, gli allucinogeni scorrevano, ma nello stesso tempo la fede, quella che Marx aveva chiamato l’oppio dei popoli, si (ri)faceva strada tra gli scettici hippies o i figli dei fiori che cominciavano a pensare che la spocchiosa critica alla religione degli intellettuali snob fosse in realtà un modo per facilitare il compito alla società di massa di fagocitare tutto e tutti nella promessa di una felicità esclusivamente commerciale.
La religione, non solo quella cristiana, rifaceva capolino con i continui riferimenti ai valori spirituali del grande chitarrista Carlos Santana, o alla Bibbia e al messaggio di pace del Vangelo di Joan Baez, una delle icone del pacifismo dei Sessanta, o la fascinazione della contemplazione e del sorriso all’esistenza dell’induista Ravi Shankar, con il saluto a mani giunte che contrassegnava la fine di ogni suo concerto e che sdoganò, grazie al beatle George Harrison, suo allievo, l’ipnotico suono del sitar.
Una sorta di continuazione e anzi diffusione più popolare, con in più riferimenti mistici e religiosi, come abbiamo visto, del messaggio beat della generazione dei Ginsberg e dei Kerouac, ma anche e soprattutto una manifestazione di amore verso la natura da sempre presente nella cultura americana (basterebbe pensare ad Emerson, a Thoreau o a Whitman) e che poi, per un certo lasso di tempo, venne messo da parte come sogno o utopia, ma oggi tornato all’attenzione mediatica come unica cura nei riguardi di un pianeta fatto ammalare dai suoi stessi abitanti.
Il sogno talvolta è tutt’uno con la realtà, come avevano intuito molto prima Shakespeare e Calderòn de la Barca, non esattamente due menestrelli qualsiasi.
Fonte Agensir