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A Sant’Angelo d’Alife fu rivolta di popolo, rimpallo di decisioni, manipolazione delle informazioni

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Matese. Tra moderno e contemporaneo

La cronaca e la riflessione di Armando Pepe, curatore di questa rubrica, ci consegnano una chiara lettura del fascismo, che l’autore stesso esplicita in chiusura dell’articolo: “il fascismo faceva credere al popolo, specie quello minuto e più facinoroso, di poter ottenere con la violenza qualsiasi cosa ritenesse utile per soddisfare le proprie esigenze”. Ma non solo: quello che emerge e che lascia sorridere per il facile parallelismo con l’oggi, sono gli gli stalli, le ambiguità, le mancate assunzioni di responsabilità che competono a chi ha responsabilità maggiori affidando agli istinti e alla pancia del popolo le peggiori soluzioni. Oggi non è fascismo o altre contrapposte correnti, ma uno stile che troppo facilmente e con forme aggiornate fa capolino tra la gente…
Un nuovo prezioso contributo ci viene da Pepe che ci permette di aggiungere tasselli alla storia locale, questa volta attingendo all’Archivio Centrale dello Stato.

4 febbraio 1923. Un moto popolare in Sant’Angelo d’Alife agli albori del fascismo

di Armando Pepe

Il 4 febbraio 1923, in Sant’Angelo d’Alife, gli esponenti della locale sezione fascista, seguiti da buona parte della popolazione, irruppero nel palazzo dei marchesi Serra di Gerace e lo occuparono, rivendicando un posto migliore per sistemare la locale scuola elementare. La famiglia Serra, conscia dell’inanità delle autorità locali, che si stavano dimostrando deboli e insicure sul da farsi, con le sue pressioni innescò una fitta corrispondenza tra sottoprefettura di Piedimonte, prefettura di Caserta, comando dei carabinieri, funzionari di pubblica sicurezza, direttorio della sezione fascista indigena, milizia nazionale e amministrazione comunale di Sant’Angelo d’Alife, sollecitando una soluzione, rapida ed energica della questione, che la documentazione archivistica ci restituisce in tutti i dettagli, rivelando altresì le contraddizioni nella catena burocratica che avrebbe gestito non senza tensioni la vicenda, costringendo i marchesi a rivolgersi direttamente ai massimi vertici dello Stato fascista.

Dopo due mesi dall’invasione del palazzo i legittimi proprietari riuscirono a ritornarne in possesso, ma la vicenda aveva dimostrato che nel gioco di rimpalli all’interno della burocrazia provinciale nessuno voleva assumersi tali responsabilità, in un clima in cui gli andamenti politici non erano molto chiari e definiti, per cui il sottoprefetto d’Elia si ritrovò nel mezzo tra le  pressioni dei proprietari – che erano per uno sgombero rapido, anche violento – e il prefetto Bladier, che cautamente conveniva sulla necessità di una soluzione giudiziaria.

Quanto la situazione fosse delicata lo dimostra una dettagliata lettera del 13 marzo 1923  scritta e inviata da Giulia Carafa d’Andria, moglie di Livio Serra di Gerace, direttamente a Benito Mussolini, da pochi mesi a capo del governo italiano, da cui apprendiamo che lo stesso Aurelio Padovani – leader del fascismo campano – non appena interpellato e deplorando l’accaduto, aveva ordinato al fascio locale l’immediato sgombro.

Il prefetto Bladier, a sua volta, assicurava di non aver emanato alcun provvedimento di occupazione temporanea per pubblica utilità, essendo disponibili altri locali più idonei a Sant’Angelo di Alife, il cui sindaco, accusato di essere stato l’istigatore del misfatto, opportunisticamente conveniva con la proposta del Sottoprefetto di Piedimonte d’Alife, cioè di rivolgersi al pretore del mandamento per ottenere uno sgombro coatto del palazzo, il quale Pretore immediatamente lo disponeva, nella speranza di risolvere l’incresciosa vicenda senza ulteriori scosse.

Apprese le sfavorevoli disposizioni e disubbidendo agli ordini dei superiori, i dirigenti locali, il sindaco e i fascisti sobillarono i cittadini, che insorsero, occupando per la seconda volta il palazzo del Marchese Serra di Gerace.

La missiva di Giulia Carafa d’Andria venne spedita da Emilio De Bono al prefetto Bladier che si trovò costretto ad accantonare la soluzione giudiziaria e a cedere alle pressioni per lo sgombero, decisione comunicata al sottoprefetto di Piedimonte, Felice D’Elia, che, non volendo inimicarsi i fascisti locali e paventando una reazione violenta della popolazione, prendeva tempo, giocandosi la carta della convocazione del sindaco e del comandante della coorte fascista per discutere una soluzione pacifica e di fatto giustificando l’utilità dell’occupazione.

Presto, però, il sottoprefetto, pena l’insubordinazione, fu costretto a ubbidire ai perentori ordini del prefetto, che aveva mobilitato il Commissario Falivene e i carabinieri e aveva ottenuto dal Comandante Padovani squadre fasciste ausiliarie per riportare l’ordine, che il 22 marzo fu infine pacificamente ripristinato.

Ancora una volta c’era stato il singolare contributo di squadre fasciste, che finivano per assumere le vesti di risolutori di abusi commessi dai loro stessi adepti. Nei giorni seguenti, con una serie di telegrammi dettagliati, il sottoprefetto inviò il suo resoconto al prefetto e questi ragguagliò il Direttore Generale della Pubblica Sicurezza Emilio De Bono, sottolineando maliziosamente che le preoccupazioni della marchesa erano state esagerate e poiché non c’erano stati i paventati disordini la soluzione migliore sarebbe stata continuare per le vie giudiziarie, avendo la nobildonna ricavato nessun danno da questa vicenda se non l’ostilità della popolazione.

In un’ultima lettera, il prefetto Bladier, a fatto concluso, fu finalmente esaustivo, ricordando che i cittadini di Sant’Angelo, i quali avevano partecipato all’occupazione del palazzo Serra di Gerace, erano stati circa un migliaio e che i sobillatori erano stati due insegnanti elementari, Domenico Russo, segretario della locale sezione fascista, e il collega Ferrazzano, suo sodale.

Dall’intreccio degli avvenimenti, si comprende, dunque, che, agli albori, il fascismo faceva credere al popolo, specie quello minuto e più facinoroso, di poter ottenere con la violenza qualsiasi cosa ritenesse utile per soddisfare le proprie esigenze. Ecco perché le sezioni fasciste, indottrinate, organizzarono e presero parte alle azioni, mentre la milizia, per mantenere alto il senso di legalità, partecipò, con le altre forze dell’ordine, alla repressione, ma non alla prevenzione.

A questo si aggiunge la manipolazione continua delle notizie, a volte incomplete, a volte contraddittorie e addolcite, altre volte ancora rivestite semplicemente di forma ma carenti nella sostanza.

Bibliografia
Armando Pepe, Le origini del Fascismo in Terra di lavoro (1920-1926), Canterano, Aracne 2019.

 

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